Il senso di una vita breve

Il senso di una vita breve

L’esperienza del vivere moderno attesta una nutrita ansia di vivere nelle persone che abitano il pianeta, indipendentemente dalla comprensione che loro stesse abbiano rispetto al significato fondamentale dell’essere un vivente.
Tale ansia non si riferisce qui al circuito delle determinazioni di carattere psicologico che la vita stessa, in quanto atto, inevitabilmente produce nell’uomo, come ad esempio la paura, la vergogna, il rapporto uomo-mondo, la depressione, le varie forme di nevrosi o quant’altro sia riconducibile ad una comprensione dell’ansia puramente in prospettiva psicologica.Piuttosto essa pare, in questo preciso contesto, riferirsi alla monolateralità con cui la vita stessa viene intesa dalla maggior parte dei soggetti viventi, da quell’equivalenza che li conduce ad intendere il proprio esistere (vita) in maniera appunto ansiosa rispetto a ciò che ne rappresenta il termine e contemporaneamente la contrapposizione più radicale, cioè la morte. I due elementi, vita e morte, vengo intesi in maniera tale sì da prolungare il più possibile il primo, fin quasi ad eternizzarlo (la vita) e ad annullare, esorcizzandolo con la stessa intensità, il secondo (la morte).
Si capisce che questa considerazione non tiene conto, in questa fase, di tutto ciò che per credenza, cultura religiosa, magismo, filosofia o quant’altro porti a credere (e magari anche su basi solide) ad una vita eterna o ad una vittoria sulla morte. Il punto di vista semmai è al rovescio e si mantiene sul piano esclusivo dell’immanenza, là dove l’umanità viene considerata secondo un parametro puramente sociologico e di costume.
Ora, si converrà che per quanto si parli continuamente e spesso indiffernziatamente di morti, guerre, omicidi, distruzione, incidenti sul lavoro, sangue, ecc., tuttavia il soggetto, e si permetta quest’analisi individuale, appare sempre più ansioso di vivere, come se posseduto da una bramosia esistenziale di cui non vorrebbe mai privarsi e per questo si aggrappa alla propria esistenza sino ad esserne, in un’ultima istanza, dominato e confinato. Tale ansia, che se ne dica, è relativa sempre a se stesso, in quanto il soggetto freme nel consumare, senza però mai la volontà di consumarla totalmente, la propria esistenza terrena, “i propri giorni”, ciò per cui si vede, si sente e si riconosce vivo o, per lo meno, pensa di apparire tale di fronte al mondo esterno (gli altri).
In realtà, anche situazioni limite come il desiderio di morire, la malattia, il suicidio, ecc., nascondono semmai una ancor maggiore ansia (voglia-bramosia) di vivere nella misura in cui la vita è capacità di autodeterminazione che, appunto, viene colta nei casi citati come non-esprimibile o, d’inverso, esprimibile unicamente nel “prelievo-auto-cessazione-assassinio” della vita stessa da quel vivere che non è più auto-determinante e, semmai, l’unico certificato di potestà sulla propria esistenza rimane proprio la facoltà di auto-demolirla.
Posto di fronte alla propria esistenza di cui molto spesso il soggetto non conosce né comprende il senso peculiare, e di cui tuttavia, pur essendone sostanzialmente il succube, se ne reputa autoritativamente ed orgogliosamente il padrone, questi sembra comunque sentirsi destinato ad un’unica opportunità, prima ancora che scelta libera e consapevole: vivere. Vivere significa così unicamente non-morire, permanere il più possibile fra i viventi, varcando talora i confini stessi di questa possibilità e il significato proprio e peculiare del vivere stesso, come dimostrano talora i tentativi medico-scientifici (e para-scientifici) di rianimazione, crioconservazione, ecc., oppure componenti magico-esoteriche di settarismo della morte, allontanamento-protezione rituale da tutto ciò che alla morte viene riferito arbitrariamente, come la malattia, la sofferenza, il dolore e via dicendo. La vita stessa pertanto viene sempre più ridotta ai minimi termini, evacuata da tutto ciò che invece le appartiene non soltanto di riflesso, come appunto le situazioni dolorose ecc., ma costitutivamente, nelle fondamenta. Questa in-versione di comprensione della vita, che porta pertanto a snaturarla, rappresenta una in-voluzione dell’uomo-vivente, che indica ed attribuisce al planisfero della morte ciò che invece appartiene naturalmente alla vita, la stessa vita di cui egli stesso, il vivente, si fa bramosamente il difensore ed il custode. L’importante è che si viva, e insieme a me, soggetto vivente, tutte le mie funzioni vitali. Ciò che mi rappresenta nel mondo è la maggior distanza da quel punto X che è la morte, di cui appunto si parla solo in prospettiva resocontistico-quantistica (dati relativi ai morti nel mondo) e mai in termini positivi, edificanti o funzionali.
Luomo è fatto per vivere”, si dice, mischiando però vari fattori in un cocktail amaro di definizioni che, per lo più, alla fine si condensano in una visione assai puerile, immediata ed istintuale, quasi animalesca e primitiva della vita stessa. Anzi, parrebbe che l’uomo abbia sete di vivere, ma non sete della vita in se stessa, la quale, oppositivamente, necessita della morte quale suo punto di riferimento e di arrivo per poter essere definita e differenziata dalla morte stessa.
Lo stesso linguaggio popolare è cosparso (anche storicamente) di asserzioni che esaltano il vivere quanto più esso si estende nella dimensione orizzontale-lineare dello spazio-tempo. Si pensi ad espressioni del tipo: “Lunga vita al re”, “Ti auguro altri cento di questi giorni”, “So che tutti dobbiamo morire, ma speriamo il più tardi possibile”, “Chi pensa per sé campa cent’anni”, “Morissi a quell’età, ci metterei la firma”, “Voglio una vita lunga e felice”, ecc.
Il senso della vita, la sua efficacia esistenziale, il suo fine, la sua ragione ultima e la sua stessa qualità, nel senso del colore, del tono e del modo (e dell’etica), sono tracimati dall’unico valore quantistico: tanto più si vive, meglio è.
In questa prospettiva si esulta sociologicamente parlando di fronte ai dati recenti che parlano di un allungamento della vita in uomini e donne, indipendentemente dal tenore e dalla qualità con cui la medesima vita-protratta viene condotta ed esistita.
D’altronde si rigetta in blocco tutto ciò che debilita il trascorrere (nel senso di pro-seguire orizzontalmente) degli anni, lo svilupparsi quantistico e puramente “datale” della vita lungo il tempo. Perciò si esorcizza tutto ciò che viene ritenuto alienante rispetto ad una vita il più lunga possibile, lasciando perdere, qui, l’aspetto materialista che la vorrebbe anche ricca e costantemente confortevole ed appagante.
Eppure “la mia vita” non sono i miei anni, così come non sono il calendario, l’orologio, l’anagrafe o un compleanno a decretarmi vivo. Io non vivo serrato e vincolato dal sorgere e tramontare del sole, o ingabbiato dentro il ripetersi dei giorni o ancora rapportando il mio volto attuale a quello delle fotografie scattate anni prima.
Sono “Io” che vivo e non la vita che vive per me, sono “Io” che rapporto la mia vita al tempo ed allo spazio e non la mia vita che mi confina coercitivamente entro il dove e il quando, pur offrendo una indiscutibile mediazione rispetto a me vivente. Se così non fosse, infatti, si limiterebbe il proprio essere-vivo entro un meccanicismo bio-fisiologico senza via d’uscita, un vero lager quantistico dove la mia esistenza è una semplice fantasia filosofica mentre la vita è determinata unicamente dai battiti del mio cuore, dal mio DNA, dal flusso sanguigno, dalla riproduzione cellulare, dalla crescita-caduta dei miei capelli, ecc.
Neppure i miei anni appartengono a ciò che mi definisce ed identifica peculiarmente come vivente, o per lo meno non lo fanno in termini primari. Certo essi attestano la mia partecipazione all’esistenza, ritmandola con valori sempre identici e ricordandomene l’origine e via via la progressiva consumazione, ma in ultima istanza sono sempre “Io” a presiedere i miei anni e non essi a decretarmi vivo o morto.
In questo senso anche la sempre più netta demarcazione dicotomica giovane-vecchio, all’origine peraltro di molte patologie psicologiche e comportamentali di questo tempo, non porta da nessuna parte se non a farmi comprendere, ancora una volta, che io sono vivo “al di là” (anche se non “indipendentemente”) dal tempo e dalla quantità.
La mia padronanza rispetto al mio esistere va colta tuttavia in termini di responsabilità e non di signoria, là dove si gioca sostanzialmente il ruolo del soggetto vivente rispetto alla propria vita. Se io precedo, in termini di scelta, la mia esistenza, tuttavia essa mi precede là dove io concepisco la mia precedenza in termini assoluti di dominio ed assoggettazione. Più cerco di far dipendere assolutisticamente la mia vita da me stesso e tanto più, inevitabilmente, essa stessa mi assoggetta e mi domina.
Un modo di assoggettamento del soggetto alla propria esistenza è proprio quello di considerare quantisticamente la propria vita e di condurla (in realtà si tratta di un “farsi condurre”) unicamente in base alla logica spazio-tempo e del valore-equazione: quanto più ho, più sono vivo, tanto più sono “giovane”, allora tanta più esistenza possiedo.
La responsabilità, invece, non permette che si pervenga ad una misurazione di tipo quantistico della propria esistenza, purché non divenga essa stessa un valore assoluto e quindi, in ultima istanza, una equivalenza essa medesima. Diverso, infatti, è considerare la responsabilità secondo i parametri moralizzanti dell’auto-unico-soggetto-decisionale, per cui si giunge inevitabilmente a parlare di colpa, merito, peccato, giudizio e più psicologicamente di nevrosi, ossessione, mania, ecc, e tuttavia sempre uni-direzionalmente, puntando cioè il dito sempre e solo “contro” il soggetto-responsabile; diversa è invece una esaltazione dell’Io-corpo-soggetto in termini di autodeterminazione non-opzionale di fronte al proprio essere ed al proprio agire, senza mai dimenticare ciò rispetto a cui tale propria responsabilità deve necessariamente rapportarsi proprio perché possa essere autentica: Dio, l’altro, l’ambiente.
Se la propria vita è realmente responsabile, allora assume ben poca importanza il suo progredire-estendersi quantistico, in quanto essa ha il proprio senso privilegiato indipendentemente dalla sua durata materiale o biologica. Tale senso non dipende da altro fattore che da sé medesimo, in quanto non è discutibile, arbitrario o variabile, bensì sempre ed unicamente identico a se stesso, poiché è il senso proprio di un’esistenza responsabilmente vissuta, in cui il soggetto fa abitare su di sé la propria vita ed al contempo, in un continuo donarsi, abita egli stesso il mondo dei viventi. Questo, a nostro giudizio, rende veramente unica ed irripetibile ogni singola esistenza umana, e pertanto, più che un valore, essa è un meraviglioso ed ineguagliabile dono tra il sé e l’altro, in virtù di un’immagine divina infusa e diffusa, in cui la collocazione spazio-temporale esercita solo il ruolo di sfondo, seppur influente, ma non di figura protagonista.
Lungo la storia sono comparse figure di uomini e donne la cui forza vitale è rifluita in tutta la sua dimensione auto-realizzante, sì da oltrepassare non solo i confini pre-giudiziali delle logiche immanenti, ma anche la stessa “barriera” spazio-temporale che contrassegna (ma non determina) l’esperienza esistenziale di ogni singolo vivente. Tali figure si sono a maggior ragione impresse nell’esperienza collettiva in modo talmente pregnante da divenire esse stesse una pagina di storia, proprio grazie a quel dominio sullo spazio-tempo che la loro esistenza e persino la loro stessa morte hanno esercitato non solo a livello individuale, ma anche comunitario, collettivo e, in ultima istanza, metastorico e metapsicologico. Le loro vite sono state sempre condotte ed amministrate indipendentemente dall’ansia di vivere sopra descritta, a favore piuttosto di una ben più costruttiva e propositiva intenzionalità di riempimento di ogni singolo atto ed istante vitale, non curanti della durata tempo-materiale della vita stessa ma piuttosto proiettate alla sua completa e piena realizzazione.
Vite che sono state di fatto brevi, dei lampi talmente rapidi e fuggenti, nella tempesta della temporalità, da non essere quasi sperimentati né, seguendo la logica comune, accolti come auspicabili, proprio per la loro intrinseca ma oggettiva brevità. Eppure queste vite brevi sono divenute vite storiche, esemplari, stupefacenti se confrontate, per restare ancora sul piano temporale, con la loro durata. Sarebbe auspicabile, perciò, cogliere ed analizzare alcuni aspetti di queste esistenze forti, se vogliamo anti-conformistiche, nella misura in cui il poco tempo vitale è stato per inverso ri-dimensionato da un pieno e profondo flusso vitale che ha ricoperto queste esistenze di un’energia e di un significato raro, specifico, singolare e, per certi aspetti, irraggiungibile. La grazia divina ha certamente depositato, nel breve raggio d’azione di questi soggetti, una forza vitale quanto mai propulsiva, un modello, potremmo dire, immaginato in Dio stesso, creato in vista del sorgere continuo, seppur discriminato dalle tenebre del mondo, di nuovi e brevi orizzonti di vita.

– Fonte: Francesco Gastone Silletta – La Casa di Miriam Torino –

 

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