Giuliana di Norwich

Giuliana di Norwich

Giuliana di Norwich 3

Dalle “Rivelazioni dell’amore divino”

della Beata Giuliana di Norwich

Editrice Studium, Roma 1957, pp. 62-65.68-69

“Cristo mi mostrò una parte della sua passione, al’approssimarsi della morte. Io vidi il suo volto soave, emaciato ed esangue, sparso del pallore della morte. E dopo lo vidi farsi anche più pallido, senza vita, languente; poi livido, poi terreo, via via che la vita abbandonava la sua carne. La sua passione mi si manifestava particolarmente dal suo volto benedetto e soprattutto dalle sue labbra: lì io vidi diffondersi i colori che ho detto, sebbene esse fossero da principio fresche, vermiglie e belle.

Questa lenta agonia era una vista infinitamente dolorosa. Vidi il naso affilarsi e disseccarsi sotto i miei occhi e il dolce corpo, prima così bello e pieno di vita, farsi terreo e oscuro nella morte. Nell’ora in cui Nostro Signore e Salvatore Benedetto moriva sulla croce, spirava un vento impetuoso, gelido e secco, e penetrava nelle sue ferite, spremendo goccia a goccia tutto il sangue della dolce carne, che tratteneva ancora quella poca umidità.

Il dolce corpo di Cristo era tormentato dal dolore e svuotato dal sangue interiormente, mentre di fuori lo penetrava l’acuto gelo del vento. Vento e gelo esteriormente, dolore e perdita di sangue interiormente, inaridirono, piano piano, la carne di Cristo. Per quanto il suo dolore fosse amaro ed acuto, lo vidi durare a lungo, ed esaurire dolorosamente gli spiriti vitali della carne di Cristo. Così io vidi la dolce carne disseccarsi parte a parte; disseccarsi in mezzo a patimenti indicibili. E fino a quando alcuno spirito ebbe vita nella carne di Cristo, egli patì il suo dolore. Questa lunga sofferenza parve come se si fosse prolungata per sette notti […]¸ dico “parve”, perché il suo dolce corpo appariva così livido, così scarno, così rigido, così inanimato, così pietoso, come se fosse rimasto per sette giorni lì ad agonizzare. E penso che il lento inaridirsi della carne di Cristo sia stato il dolore più grande, l’estremo della sua passione.

Giuliana di Norwich 4

[…] Durante questa agonia, mi vennero alla mente le parole di Cristo: “Ho sete!”. Vidi in lui una duplice sete: fisica e spirituale, di cui io parlerò più avanti. Queste parole mi vennero ricordate qui per la sete fisica, che io compresi essere causata dalla mancanza di umori vitali. Perché la carne benedetta e le ossa di lui erano rimaste prive di sangue e di umori. Il corpo divino inaridì abbandonato per lungo tempo, con i chiodi che lo laceravano e il peso che lo slogava. Io compresi che, per la morbidezza delle dolci mani e dei dolci piedi, per la grossezza, la durezza, e il tormento dei chiodi, le ferite si allargarono e il corpo sospeso da tanto tempo cedette per la gravezza. Inoltre il suo capo era trafitto e tormentato dalla corona di spine coperta di sangue essiccato, e carne e capelli aderivano alle spine, le spine alla carne morente, nella quale avevano scavato profonde ferite. E ancora io vidi che la dolce pelle e la tenera carne, con i capelli ed il sangue che vi aderiva, era tutta sollevata e staccata dall’osso, e trapassata dalle lunghe spine, e quando le rimaneva tuttora un po’ di umore vitale, pareva stesse lì lì per cadere, come un panno che si affloscia per la eccessiva pesantezza.

Questo era per me grande dolore e timore, perché tremavo di vederla cadere. Come questo fosse accaduto non saprei dire, penso fossero state le acute spine, quando la corona era stata spietatamente premuta sulla testa di Cristo.

La visione continuò così per alcun tempo, poi cominciò a cambiare ed io, guardando, mi meravigliai quale ne fosse la causa. Allora io compresi che ne era motivo il disseccarsi della carne che perdeva così una parte del suo peso e si raggrinzava attorno alla corona. Così la circondava tutta, come fosse una corona di carne attorno a quella di spine. La corona di spine era tinta del sangue, e l’altra corona di sangue e la testa, erano tutte di un colore, come sangue raggrumato. La pelle che appariva sul volto e sul corpo, era tutta piccole rughe di un colore bruno, come un tronco stagionato senza corteccia, e il volto più scuro del corpo.

Io vidi quattro cause di questo inaridimento. Prima, la perdita di sangue. Seconda, il dolore che ne seguì. Terza, essere sospeso a mezz’aria come si appende un cencio ad asciugare. Quarta, la privazione di acqua e di qualsivoglia conforto materiale durante il suo interminabile strazio.

Ah, duro e tormentoso era il suo dolore, ma più duro e tormentoso fu quando vennero meno gli umori vitali e tutto cominciò a disseccarsi, attaccato come era alla croce.

Questi furono i patimenti che apparivano sul volto benedetto: il primo era causato dall’agonia, fino a che vi furono umori; l’altro invece dal lento prosciugarsi della carne, inaridita sulle ossa, sotto la sferza del vento che la essiccava, provocando a Gesù tali sofferenze, che a stento il mio cuore può immaginarle. E a tali sofferenze, altre se ne aggiungevano, ma non mi è possibile dirle, perché non mi pare che al mondo possano esservi parole sufficienti ad esprimerne l’atrocità.

Questa visione dei dolori di Cristo riempì anche me tutta di dolore. Perché io intendevo bene che lui aveva patito una volta sola, ma anche intendevo come avesse voluto mostrarmi questi patimenti e riempirmi del loro ricordo, secondo il desiderio da me manifestato per l’addietro. E in tutto questo tempo dei patimenti di Cristo, io non provai dolori se non per essi.

Poi pensai fra me: “Io non avevo proprio una idea dei patimenti che domandavo (nelle mie richieste di poter soffrire come lui, N.d.R.) e, miserabile che sono, mi pentii, pensando: “Se avessi saputo che cosa era, sarei stata riluttante a domandarli!”. Perché mi pareva che i miei patimenti superassero per la loro intensità la morte stessa.

Pensai: “Vi è al mondo un patimento simile a questo?”. E mi fu risposto nel mio intelletto: “L’inferno è un patimento maggiore, perché non vi è speranza, ma di tutti i patimenti che conducono alla salvazione questo è il più grande, veder soffrire Colui che ami. Come potrebbe esservi patimento più grande per me, che quello di vedere Lui che è tutta la mia vita, tutto il mio gaudio e tutta la mia gioia, soffrire?”. E qui io sentii che amavo Cristo tanto profondamente, che non poteva esservi patimento simile al dolore che avevo provato nel veder Lui patire.

Giuliana di Norwich 5(Vista di Norwich)

[…] Pentimento e scelta volontaria sono due opposti sentimenti che io sentivo in me come una cosa sola. Di queste due parti noi siamo fatti: l’una interna, l’altra esterna. La parte esterna è la nostra carnalità mortale, dolorante ed afflitta, come sempre continuerà ad esserlo in questa vita mortale – che molto in quel tempo mi affliggeva – ed era questa la parte di me che si era rifiutata. La parte interna è una alta, gloriosa esistenza, tutta pace ed amore, che si fa sentire più segretamente; questa è la parte di me che fortemente, saggiamente e volontariamente scelse Gesù per suo cielo.

Questo io chiaramente compresi, che la parte interna è signora e sovrana di quella esterna, non si assume la responsabilità dei singoli atti di quella, né si cura della sua volontà ribelle: ma ogni intento e volere mira incessantemente all’unità in Nostro Signore Gesù. Che la parte esterna dovesse trascinare la interna a consentire ai suoi voleri non mi venne rivelato; ma che quella interna trascina la esterna mediante la Grazia, e che entrambe saranno unite in una felicità senza fine, per la virtù di Cristo, questo mi venne rivelato”.

Fonte: francesco Gastone Silletta – La Casa di Miriam Torino

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