Innocenza, concupiscenza e pudore

Innocenza, concupiscenza e pudore

(La Casa di Miriam riprende la pubblicazione della nostra Tesi di Laurea di Francesco Gastone Silletta dedicata alla Teologia del Corpo di Giovanni Paolo II, con immensa gratitudine a questo Pontefice per il suo sforzo intellettuale in questo delicato ambito della conoscenza teologica. In Bacheca, qui a destra, si può trovare la precedente parte della pubblicazione)

 

  1. L’uomo della concupiscenza prende il posto dell’uomo dell’innocenza originaria

La vergogna, psicologicamente, è un timore di mostrare se stessi nella propria “nudità”, nel senso di come si è realmente, ed ha a che fare sempre con un bisogno consapevole o inconscio di protezione[1]. Nel caso di Adamo, essa è rappresentata da una presa di coscienza attuale di aver falsificato la propria immagine e contribuito alla dissimulazione della propria somiglianza con Dio. Il corpo è il testimone più immediato di questa presa di coscienza. I progenitori non sono più l’archetipo della felicità originaria frutto della relazione-simbiosi con Dio, bensì il modello umano della drammaticità, anche sessuale, del proprio estraniarsi da questa relazione, il cui effetto più radicale è la morte, non solo corporale, ma anche di identità. C.G. Jung riconduce la vicenda del peccato originale entro i binari della pura psicologia del profondo, per cui l’atto del mangiare dell’albero della conoscenza rappresenta un atto della presa di coscienza, pertanto una fondamentale tappa nel cammino umano di appropriazione del proprio sè[2]. Tuttavia, un’analisi meta-psicologica della colpa originaria non può non evidenziare come la presa di coscienza junghiana rispecchi in realtà una consapevolezza della “non-somiglianza[3], un’effettiva degradazione del proprio essere creaturale piuttosto che non la reale coscienza di sé che l’uomo maschio-femmina possedeva nell’Eden originario e fondata sull’essere immagine di Dio. Il corpo, nell’esperienza originaria, non era oggetto di vergogna, bensì di espressione reciproca del proprio essere personale, come manifestazione esplicita ed esteriore di una pienezza umana raggiunta nella bimorfologia sessuale. Dopo il peccato originale, invece, il corpo è un tabù, la stessa presunta coscienza di sé descritta da Jung non si capisce perché debba essere mascherata con “foglie di fico” ed in generale interpretata pudicamente. Il fondamento è l’assenza di Dio nel rapporto sessualmente differenziato tra uomo e donna. Privarsi di Dio significa de-personalizzarsi, non riuscire ad autocomprendersi sino in fondo, al punto di doversi dissimulare, anche nella propria corporeità, sino a non trovare più la propria radice umana dentro la propria e personale umanità.

In questo senso, l’azione di Adamo è devastante. L’innocenza originaria, per effetto della vergogna che a sua volta genera vergogna, si trasforma in uno status naturae lapsae, nel senso che l’uomo maschio-femmina perde di vista il fondamento della propria identità sessuale. Infatti, come asserisce Giovanni Paolo II, la non somiglianza contenuta nel peccato[4] implica anche una non libertà, nel senso di impossibilità specifica ad agire pienamente in libertà nella propria condizione creaturale.

L’espressione più evidente di questa mutilazione dell’innocenza originaria è l’ingresso della cosiddetta concupiscenza nel cuore umano. Il corpo e la sessualità dell’altro, dopo la disubbidienza, non vengono più interpretati come espressione della persona altrui, secondo la retta prospettiva del soggetto cui donarsi, bensì quale oggetto di possibile godimento, per cui la persona svilisce entro i binari di un qualcosa destinato all’uso per la propria soddisfazione[5]. La stessa volontà si orienta verso l’altro non più secondo lo sguardo creativo divino, bensì in una prospettiva egoistica e finalizzata al proprio interesse personale. La nudità originaria, pertanto diviene ora “privazione di partecipazione al Dono”[6].

Non si tratta, tuttavia, di una visione amartiocentrica del peccato originale di matrice agostiniana, come sostengono alcuni[7], bensì di una perdita volontaria della verità contenuta nel proprio essere immagine di Dio dell’uomo maschio-femmina.

Questi, infatti, pur mantenendo lo stato di coscienza del proprio corpo, che lo rende consapevole di essere altro rispetto alle creature e a Dio e per questo di vivere in un corpo che è suo, perde tuttavia lo stato di coscienza del ‘significato’ del proprio corpo. Giovanni Paolo II insiste molto su questo aspetto “rivoluzionario” della colpa originaria, sottolineando come il dramma fondamentale, in termini di svilimento della persona, sta proprio nello smarrimento dell’uomo maschio-femmina di fronte alle finalità del corpo, non più compreso come espressione della persona umana. Tale situazione è determinata dalla rottura radicale dell’Alleanza con Dio che il peccato originale comporta, privando l’uomo di quella dimensione comunitaria nella quale era inscritto “creativamente”, in quanto creato entro una differenziazione maschile-femminile in cui l’uno si rapporta all’altro pur essendone diverso, anzi, proprio in forza di questa diversità. La relazione triadica io-tu-noi, pertanto, risulta infranta dalla chiusura personale entro il confine del proprio sé, compromettendo lo stesso essere immagine di Dio e la relazione con lui. Le stesse categorie sessuali, infatti, sono categorie teologali, per cui la maschilità e la femminilità sono le due modalità analoghe alle Persone divine, legate, correlate dall’Amore[8]. Questa realtà inserita nel disegno creativo divino e di cui l’uomo maschio-femmina originariamente beneficiava in pienezza, viene infranta dalla libera iniziativa dei progenitori consistente nella scelta della disubbidienza.

 

  1. Il pudore a motivo della conoscenza

Il pudore non è una realtà originaria dell’uomo. Nella filogenesi umana, esso rappresenta una perdita, più che una acquisizione di coscienza. Tale perdita è proprio l’infrazione di quel legame creaturale fondante che ci rimanda all’archetipo, per cui la struttura essenziale dell’uomo risulta fortemente compromessa. Con il peccato originale, pertanto, “l’uomo perde la certezza originaria dell’immagine di Dio espressa nel suo corpo”[9]. Questa realtà consequenziale al peccato originale è per l’uomo devastante, in termini non solo dell’Io colpevole (Adamo ed Eva), bensì molto più profondamente per tutta l’umanità da esso generata. La tesi per cui la coscienza umana è la più alta divinità (Marx) risulta quanto mai fallace e priva di senso teologico. L’uomo, infatti, per natura non gode dell’a-seità divina, non dipende unicamente da se stesso come Dio. Decretare autonomamente una condizione di non-dipendenza che in realtà l’uomo non possiede è per l’uomo stesso quanto mai deleterio, una falsificazione del proprio sé dipendente da Dio e dalla relazione-donazione con il prossimo. In questo non vi è nessuna cancellazione della libertà umana, come vorrebbe Nietzsche, per il quale risulta impossibile pensare a un Dio che fondi la libertà della propria creatura sul mangiare o non mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male.

Il pudore e la concupiscenza, pertanto, si rapportano al peccato originale unicamente in una dimensione di consequenzialità, per cui non ha alcun senso antropologico prospettarli come possibili anche prima del peccato di Adamo. Si badi tuttavia a non confondere la concupiscenza unicamente con l’unione carnale maschio-femmina. Lo stesso Agostino, che di per sé non è certo un sostenitore del rapporto carnale uomo-donna, ammette: “Non vedo cosa avrebbe potuto impedire che anche nel Paradiso potesse esserci un matrimonio onorato ed un letto nuziale privo di sozzura”[10].

L’origine del pudore, quindi, in particolare di quel pudore sessuale che portò Adamo ed Eva a coprirsi con delle foglie di fico non appena “si accorsero” di essere nudi (Gen 3,7), può essere compresa soltanto attraverso una significazione metafisica del pudore che ne metta in luce il suo profondo rapporto con l’essere della persona piuttosto che con la nudità in se stessa. Su questo argomento Giovanni Paolo II si è a lungo soffermato, in particolare nello studio esposto nel testo Amore e responsabilità, del quale qui di seguito si analizzeranno le riflessioni più significative[11].

Il punto di partenza dell’allora Cardinal Wojtyla è una comprensione fenomenologica del pudore. Esso è sempre legato alla persona e non è necessariamente un nascondere qualcosa di male o che si ritiene tale. Piuttosto, esso è legato fenomenicamente alla paura dello “svelamento” di un qualcosa che invece dovrebbe rimanere nascosto. Non è propriamente un timore, come si potrebbe pensare, bensì un fenomeno che lo precede immediatamente e che appunto per questo lo genera. Si potrebbe dire che, più che paura di un qualcosa che viene esteriorizzato, il pudore è proprio la percezione come “male” di questa esteriorizzazione, per cui l’idea di attuarla genera inevitabilmente paura nel soggetto.

Vi è tuttavia una considerazione previa che il compianto pontefice segnala puntualmente in questa sua analisi. Infatti, se il fenomeno del pudore esprime un disagio di fronte alla esteriorizzazione di quanto dovrebbe rimanere nascosto, al contempo esso attesta chiaramente l’esistenza di uno spazio assolutamente interiore, di una interiorità personale che si considera, perché di fatto lo è, inviolabile ed incomunicabile. Questa caratteristica dello spazio interiore “proprio” contenuto nella persona genera l’esigenza di mantenerlo nascosto e, per conseguenza, il pudore ed il timore di svelarlo.

Volgendo il discorso dal pudore in generale al pudore propriamente sessuale, secondo la medesima logica asserita qui sopra il pudore si caratterizza come tendenza al nascondimento dei propri valori sessuali nella misura in cui essi vengono interpretati come possibili oggetti di godimento. È questo, se si vuole, il “tranello” all’amore personale posto dall’amore unicamente sessuale, per cui il corpo è null’altro che una fonte di godimento.

Passando da una metodologia analitica ad una più strettamente metafisica, si perviene all’attestazione del pudore quale naturale[12] reazione alla possibilità di abusare dell’inviolabilità della persona. Il pudore è pertanto indissolubilmente legato alla persona stessa, è un fenomeno relativo all’essenza personale dell’uomo. Esso è espressione immediata di un meccanismo di auto-difesa attraverso il quale la persona protegge la propria inviolabilità, proprio a ragione del suo carattere sopra-utilitario, in particolare di fronte ad impulsi di matrice sessuale in cui si “percepisce” una spinta ad utilizzare il corpo, espressione della persona, per una finalità evidentemente opposta a quella che gli è propria, ovvero il proprio godimento. Questo, infatti, rappresenterebbe una evidente violazione del significato del corpo, che come già detto è di natura sponsale.

La conoscenza del bene e del male, frutto della disobbedienza dei progenitori, sostanzialmente riproduce la situazione qui delineata: l’uomo maschio-femmina interpreta dopo il peccato originale la propria sessualità e il proprio essere corpo nella dualità uomo-donna non più come valore esplicito del proprio essere persona, bensì quasi come una “meteora” all’interno della propria condizione umana rispetto alla quale non riesce più a dare una interpretazione sovra-animale, svilendosi appunto da persona umana al livello di creatura animale. Si origina così una situazione precaria di volontà sessuale, per cui da un lato l’uomo desidera la propria sessualità, il proprio potersi esprimere comunicando sessualmente con la donna, tuttavia consapevole che questa comunicazione sessuale non avviene più entro i binari della logica creativa, cioè orientata ad esprimere la loro personale dignità ed il significato della propria vocazione, bensì unicamente in termini “utilitaristici”, sia di origine procreativa sia, ancor peggio, unicamente goditiva. Questa condizione successiva al peccato originale, proprio perché radicata nella coscienza, nel senso che l’atto di mangiare dell’albero simboleggia proprio un venirne a conoscenza, disorienta quello sguardo originario con cui essi stessi si guardavano al tempo dell’innocenza originaria, esprimendo attraverso quello stesso sguardo le relazione intradivine la cui immagine era la loro stessa originaria relazione, producendo proprio per questa coscienza un sentimento di pudore rispetto ai propri valori sessuali[13].

Fonte: Francesco Gastone Silletta – La Casa di Miriam – Torino


[1] Cfr. GRUN A., Lottare e amare, Ed. S. Paolo, Cinisello Balsamo 2004, p. 23.

[2] Cfr. Ivi, p. 17.

[3] GIOVANNI PAOLO II, Lett. ap. Mulieris dignitatem, n. 9

[4] Idem.

[5] Cfr. Caffarra C., Sessualità alla luce dell’antropologia e della Bibbia, v. sito internet http://www.caffarra.it/sexualidad_95.php.

[6] GIOVANNI PAOLO II, Uomo e donna lo creò, op. cit., p. 125.

[7] Cfr. MATSOUKAS N.A., Teologia dogmatica e simbolica ortodossa, Vol. 2, Dehoniane, Roma 1996, 2, p. 109.

[8] Cfr. BONOMI G., La rivoluzione sessuale: dalla sessualità riproduttiva alla sessualità relazionale, Lezione 1.

[9] GIOVANNI PAOLO II, Uomo e donna lo creò, op. cit., p. 127.

[10] SANT’AGOSTINO, De Genesi ad litteram, libro IX, 3,6.

[11] Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Amore e responsabilità, op. cit., pp. 127-132.

[12] K. Wojtyla non lo specifica testualmente, tuttavia qui con il termine “naturale”, da lui stesso adoperato, ci si riferisce evidentemente ad una condizione umana comunque posteriore al peccato originale, per cui la “natura” umana a cui ci si appella non è la stessa natura umana originaria dei progenitori nell’Eden, in cui, come si è detto precedentemente, il pudore non aveva alcun senso ontologico di esistenza a motivo dell’innocenza originaria.

[13] Cfr. SEMEN Y., La sessualità secondo Giovanni Paolo II, op. cit., pp. 113-117

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