1Colossesi 1,29: “Mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza”
Fatica e lotta, dice san Paolo ai Colossesi, al fine che mediante l’ammonizione, l’istruzione e l’annuncio del Vangelo, ciascuno divenga perfetto in Cristo. Perfezione del ricevente, implica quindi fatica e combattimento da parte del donante: una fatica, tuttavia, che se ha in lui l’estrinsecità, cioè la visibilità sensibile, ha in Cristo stesso l’origine e la fonte della sua forza di sopportazione e di vittoria sul male. I Colossesi sono qui utili per l’universalizzazione di questo messaggio, valido al tempo di Paolo come in ogni tempo della storia: non esiste, infatti, una testimonianza credibile del Vangelo senza che essa comporti “fatica e lotta”, dolore, abnegazione, combattimento spirituale, emarginazione e, in casi estremi ma non così rari, anche il sacrificio della vita. Ma nulla è più importante dell’esito finale: la conversione in Cristo del destinatario di tanto investimento di se stessi, nulla è più significativo della trasformazione delle anime, che dalla vita secondo il mondo, divengono viventi secondo il Vangelo. Paolo parla qui in veste di “ministro” (v. 25), ma chiunque serva la testimonianza di Cristo con il medesimo zelo, anche laico, può essere parte integrante della fatica paolina. Il mistero di Cristo è infatti il mistero della salvezza dell’uomo, dinanzi al quale non vi è sofferenza umanamente intesa che non valga la pena di essere affrontata affinché anche un’anima sola si converta e viva secondo il Vangelo. “Voglio infatti che sappiate quale dura lotta io devo sostenere per voi, per quelli di Laodicèa e per tutti coloro che non mi hanno mai visto di persona, perché i loro cuori vengano consolati e così, strettamente congiunti nell’amore, essi acquistino in tutta la sua ricchezza la piena intelligenza, e giungano a penetrare nella perfetta conoscenza del mistero di Dio, cioè Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza” – dice Paolo ai Colossesi (2,2-3). Non è nemmeno importante, come emerge da queste parole, la conoscenza personale e diretta del destinatario dell’annuncio evangelico ai fini di una efficace testimonianza. Paolo sa che i Colossesi sono una comunità sorta a livello pratico non dalla sua predicazione, ma da quella del suo discepolo Epafra; ciò non implica tuttavia che con minor impeto, fatica, zelo e sofferenza non arrivi ai Colossesi (e a quanti sono evocati in questo citato brano) tutto il carico testimoniale che Paolo affida loro, offrendo se stesso, addirittura “completando nella sua carne” le sofferenze di Cristo in loro favore. Nemmeno a noi la sofferenza deve spaventare; non perché la si debba cercare o non la si debba evitare quando possibile, tuttavia è più spaventosa l’idea di perdere delle anime – che Cristo ha affidato alla nostra predicazione – piuttosto che non parte di se stessi, della propria vita. Il premio è infatti nei Cieli, non in questo mondo, e non ha paragoni possibili. Le sofferenze del tempo presente – quali che siano – non sono comparabili alla gioia futura, dice lo stesso Paolo altrove (Rm 8,18). E dunque possiamo e dobbiamo, cristianamente, accettare la sfida della sofferenza per il bene degli altri, che è quello della loro conversione. Diversamente, l’essere cristiani non ha alcun peso testimoniale, è essenza privata e come tale non significa nulla dinanzi a Gesù Cristo: come io ho amato voi, così amatevi gli uni gli altri, ci insegna Gesù. E in questa reciprocità è inclusa ogni possibile sofferenza per il raggiungimento del fine stabilito, ogni possibile smarrimento, lotta, fatica, combattimento, incomprensione, affinché sia comunque l’amore, e l’amore di Cristo, a trionfare. Senza sofferenza, non c’è espiazione, senza espiazione non c’è redenzione, e senza di questa, non c’è salvezza, non c’è vita eterna, non c’è Dio. Amen
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