Abacuc, un grande profeta di Cristo, i cui versi suonano dolcissimi, ma purtroppo poco letti e meditati

Bible Prophecy Fulfilled: The Coming of the Messiah‏ | Messianic Bible

Abacuc, un grande profeta di Cristo, i cui versi suonano dolcissimi, ma purtroppo poco letti e meditati***:

 

Avevamo preannunciato tempo fa un piccolo momento di meditazione sul testo del profeta Abacuc, uno dei testi che compongono la cosiddetta categoria biblica dei “profeti minori”. Sappiamo che con questa etichettatura non si vuole sminuire il valore di questi profeti, ma soltanto indicare la minore estensione dei loro testi rispetto ai cosiddetti quattro “profeti maggiori”, che tutti conosciamo.

Ora, in un testo come quello di Abacuc (ma in molti altri testi dell’Antico Testamento), è necessario non avere fretta di giungere al termine della lettura, con sintesi affrettate del suo contenuto specifico. Anche se molto breve, infatti (si costituisce di soli tre capitoli), questo libro è teologicamente molto intenso e, da un punto di vista spirituale, assolutamente persuasivo. Alcuni dettagli teologici sono ancora oggi, dopo tanti secoli, oggetto di distinte valutazioni da parte dei biblisti, non sempre omogenee. Il punto di partenza di questo scritto, non è tanto di ordine formale (nel senso della data di composizione, della provenienza geografica di Abacuc, del contesto in cui è stato composto, ecc.), ma immediatamente teologico. Entrando dentro al testo, infatti – con uno sguardo critico che potremmo definire “narratologico” – avvertiamo immediatamente, sin dal principio della composizione, un vero “interrogatorio”, dal tono sconsolato ma intenso, che il profeta pone direttamente a Dio relativamente alla condizione drammatica del suo popolo. Si tratta, qui, di una novità stilistica nel contesto profetico, poiché a suo modo Abacuc istituisce una vera “polemica” con Dio, sebbene umilmente mascherata nella forma letteraria della lamentazione supplichevole: “Fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti, a te alzerò il grido: “Violenza!” e non soccorri? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?” (Ab 1,2s). Queste parole sono l’incipit stesso del libro, che dunque inizia in modo subito irruento con l’angoscioso lamento del profeta. Cosa sia in senso oggettivo ciò che sconvolge, a livello eziologico, l’anima di Abacuc, è ancora non del tutto chiaro, sebbene esso paia essere l’invasione Caldea. E tuttavia, in ambito teologico, queste parole del profeta si possono assumere di per se stesse ed attualizzarle anche in contesti molto distinti da quelli storici del profeta, come ad esempio anche nei tempi di oggi. Il senso è chiaro: Abacuc “osa” avvicinarsi a Dio in modo “critico” (e più avanti riprenderà questo tono dialettico), non riuscendo a coniugare nella sua mente il male che imperversa nel suo popolo (e noi diremmo oggi: nel mondo), con la giustizia onnipotente di Dio. Perché questa contraddizione?

Si capisce che a tale domanda è necessaria una risposta che solo l’Interrogato può fornire. In tal senso, come in molti altri testi biblici, occorre saper individuare – dentro al testo – dove sia il profeta a parlare e dove invece parli Dio direttamente, non essendo questa distinzione “verbale” sempre specificata formalmente nel testo (come ad esempio in 2,2: “Il Signore mi rispose e mi disse…”).

In tal senso, già a inizio del libro, subito dopo il citato lamento del profeta, Dio stesso interviene (senza alcuna mediazione di specificazioni letterarie che ne introducano la voce), e sorprende non soltanto il profeta, ma anche lo stesso lettore, dal momento che nel parlare divino compaiono due elementi imprevedibili da un punto di vista teologico, in parte definiti tali da Dio stesso. Il primo è quello che si evince laddove viene detto al profeta: “C’è chi compirà ai vostri giorni una cosa che a raccontarla non sarebbe creduta” (1,5). Questo versetto – che costituisce la prima parte della risposta di Dio al profeta – è a sua volta, come detto per il lamento del profeta stesso, leggibile “astraendolo” dal contesto storico della sua composizione ed applicabile altrove nella storia umana. E in modo speciale, come molti cristiani antichi hanno fatto, esso viene inteso quale annuncio messianico, nel quale Dio “compirà una cosa che a raccontarla non sarebbe creduta”, cioè l’incarnazione del suo Verbo. Vi è poi il secondo elemento, a sua volta misterioso (e che nella dialettica con il profeta susciterà la contro-risposta di quest’ultimo), ossia l’invio dei Caldei quali strumenti di giustizia davanti alla condotta del suo popolo. Dio dice infatti al profeta che manderà questo popolo, “feroce e impetuoso… che assale una città e la conquista” (1,6.10). Il mistero di queste parole di Dio viene colto dal profeta, fermo ad una comprensione molto umana dell’agire divino. In tal senso, egli – come il lettore – non comprende e chiede a Dio: “Tu, dagli occhi così puri che non puoi vedere il male e non puoi guardare l’iniquità, perché vedendo i malvagi taci, mentre l’empio ingoia il giusto?” (Ab 1,13).

Abacuc è fermo a una interpretazione orizzontale della volontà di Dio sul suo popolo. Esso deve subire infatti un castigo, ma vi è una trascendenza inattesa anche nel castigo medesimo che esso dovrà sopportare. Le parole di Dio, qui, sono inequivocabili: “È una visione (la tua di profeta) che attesta un termine, parla di una scadenza e non mente: se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà” (Ab 2,3). Anche in questo caso, le parole di Dio hanno un senso immediato ed uno remoto, un senso storico ed uno messianico. Infatti, da un lato viene garantito come il castigo dei Caldei “avrà un termine”, vi è una scadenza fissata per esso e il profeta viene esortato, in tal senso, a pazientare. E tuttavia Dio guarda, con queste parole, già alla venuta del suo Messia, il suo stesso Figlio, che “certo verrà e non tarderà” . Solo alla luce di questa trascendenza della profezia donata ad Abacuc, si può intendere, anche qui secondo il duplice senso della storia immediata e di quella remota del Messia, quel versetto tanto caro alla tradizione cristiana, da san Paolo in avanti: “Soccombe colui che ha l’animo retto, ma il giusto vivrà per la sua fede” (Ab 2,4). Paolo ha colto di questo monito unicamente il senso teologico della fede, come anche noi cristiani con lui, ritenendo dunque che è per la fede che noi otteniamo la nostra salvezza. Tuttavia esso ha anche un senso immediato: nella drammatica situazione dell’invasione Caldea, soltanto chi riporrà la sua fede in Dio, si salverà. In tal senso si comprende meglio il seguito del libro. Se infatti i Caldei sono strumenti utilizzati da Dio per castigare la condotta empia del suo popolo, a sua volta il potente popolo dei Caldei sarà “canzonato” (alla lettera del termine “motteggio” di 2,6) per il modo in cui si sarà comportato con il popolo di Dio, accumulando i suoi tesori (è la prima delle 5 imprecazioni contro i Caldei), la sua avidità, la sua violenza, la sua immoralità e la sua idolatria (le altre 4 imprecazioni). Anche questo scenario profetico di sventura per il conquistatore Caldeo, tuttavia, ha un senso storico ed uno trascendente e messianico. Infatti, come anticipa il preludio a queste cinque imprecazioni, “il superbo non sussisterà, spalanca come gli inferi le sue fauci… ma tutti lo canzoneranno e si faranno motteggi per lui” (cf. Ab 2,5-6). Il senso trascendente si coglie andando oltre “l’attualità storica” dell’invasione Caldea, a cui queste parole sono in prima istanza destinate, e guardando al capitolo successivo, il terzo e ultimo, dove il profeta ammette di avere inteso il piano di Dio, “ho avuto timore della tua opera. Nel corso degli anni manifestala… nello sdegno, ricordati di avere clemenza” (3,2). Abacuc si ritira dunque dalla sua iniziale contestazione dialettica, poiché ha inteso ciò che di straordinario verrà, Colui che canzonerà il Nemico, assai più malvagio del solo popolo Caldeo. Di qui la preghiera di Abacuc, che annuncia la venuta del Signore, la venuta messianica: “Il suo splendore è come la luce, bagliori di folgore escono dalle sue mani: là si cela la sua potenza” (3,4). Bellissima poi l’immagine di questo Messia che “guarda e fa tremare le genti: le montagne eterne si infrangono e i colli antichi si abbassano, i suoi sentieri nei secoli” (3,6). Il passato, l’antichità viene al contempo purificata e vinta nella sua antichità d’aspetto: ogni resistenza allo splendore dell’Inviato di Dio viene spezzata. “Sei uscito per salvare il tuo popolo, per salvare il tuo consacrato. Hai demolito la cima della casa dell’empio, l’hai scalzata fino alle fondamenta” – dice ancora Abacuc (3,13). Nella sua venuta, il Messia umilia il Nemico sin alla radice del suo male. Di qui, a conclusione del testo, la duplice consapevolezza del profeta, ancora unita di storicità immediata e di profezia messianica. Da un lato, infatti, Abacuc si lamenta dell’inevitabile presente storico, con tutti i danni che esso causerà (Abacuc elenca quelli agricoli: “Il fico non germoglierà, nessun prodotto daranno le viti, ecc.”. E tuttavia il dramma del combattimento è superato dalla pace dell’esito: “Io gioirò nel Signore, esulterò in Dio, mio Salvatore” (3,18). Queste ultime parole sono contemplate anche nella preghiera di Maria, Madre di Gesù, nel canto del Magnificat: la consapevolezza della venuta del Salvatore spezza ogni disequilibrio di inquietudine e ogni disarmonia dello spirito dinanzi all’evidenza del male esistente, a motivo della grazia venuta sulla terra mediante il Salvatore. Amen

 

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