È davvero il regno dei Cieli ciò a cui mira l’evangelizzazione contemporanea?
“Il mio regno non è di questo mondo. Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”. Questo lo dice Gesù – almeno nella redazione di Giovanni 18,36.
Se ciò a cui tende la nostra evangelizzazione, tuttavia, è davvero il regno dei Cieli, allora anche la stessa evangelizzazione che operiamo in nome di Gesù (e che dovremmo innanzitutto operare in noi stessi) deve adeguarsi all’idea che il regno da noi predicato “non è” di quaggiù. Se da un lato, però, predichiamo parole che mirano alla vita eterna, e dall’altro l’occhio umano si ferma volentieri su ciò che gratifica a livello unicamente “temporale” – cioè in questa vita – la nostra umana esistenza, eccoci in contraddizione palese con noi stessi.
Non è infatti sensato che si predichi una cosa e ce ne si attenda un’altra, come se uno dicesse: “Coraggio, in Cristo avremo la vita eterna!” e poi pensasse in se stesso: “Ma speriamo che questo avvenga il più tardi possibile!”, scongiurando con ogni mezzo l’idea della morte corporale. Ciò manifesta un controsenso e un equivoco nell’evangelizzazione “pratica”, ossia nell’aspetto testimoniale, più che non teorico, dell’annuncio del Vangelo stesso. Uno, infatti, muore tanto prima, quanto più la sua anima è legata alle cose di questo mondo.
Se infatti predichiamo di distaccarci dai beni temporali, dove vengono i “ladri” (anche quelli spirituali che rubano l’anima); se diciamo alla gente di “guardare alle cose di lassù, non a quelle di quaggiù”; se insistiamo sull’idea che la vera vita è quella in Cristo, che si vive nell’eternità; se esortiamo a costruire la casa sulla roccia, a bere il vino nuovo del Vangelo, a lasciare che i morti seppelliscano i loro morti: ebbene, se dopo tutto questo – con gli arredi linguistici e omiletici che alcuni predicatori sanno contestualizzare a seconda dei casi – siamo noi i primi a rimpiangere le cose del mondo, gli anni che passano, i momenti del passato, le occasioni perse e via dicendo – e tutto questo in un modo ancora una volta “ipocrita”, nel senso che la gente non lo vede, ma lo vede Dio in noi – allora ecco l’evanescenza della nostra evangelizzazione, l’impossibilità che essa fruttifichi, indipendentemente da quanta gente si ponga al nostro seguito al modo di una utenza racimolata, che in nessun modo si può assurgere ad oggettivo buon esito dell’evangelizzazione: non sono infatti questi i frutti veri dell’evangelizzazione che Gesù ci chiede di operare. Un cieco, infatti, non può mai guidare un altro cieco. Amen
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