“Come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri?” (Gv 5,44) – Un controsenso ipocrita di natura teologica dei “Giudei”
Qual è la natura dell’accusa e a chi viene oggettivamente posta da Gesù mediante queste sue parole? In questo passo, Giovanni Evangelista parla genericamente dei “Giudei”, ma sappiamo che questo termine nel suo Vangelo è evocativo almeno di tre categorie distinte di persone. La prima è quella dei “Giudei” nel senso degli abitanti della Giudea, distinta a livello “territoriale” dalla Galilea e dalla Samaria. Un esempio di questo modo di intendere il termine “Giudei” si ha in Gv 4,9b: “I Giudei non mantengono buoni rapporti con i Samaritani”. Un secondo senso del termine “Giudei” è invece quello di intendere con esso l’intero popolo di Israele, come ad esempio nella stessa iscrizione posta sulla croce di Gesù: “Gesù Nazareno, re dei Giudei” (Gv 19,19). Il terzo senso è tuttavia quello molto più frequente nel Vangelo di Giovanni, ossia quello mediante il quale si indicano le autorità religiose e la classe colta di Gerusalemme. Fra i molti esempi possibili, citiamo quello di Gv 7,35: “Dissero dunque tra loro i Giudei: ‘Dove mai sta per andare costui, che noi non potremo trovarlo?”. Ora, è certamente in questo terzo senso che va inteso il destinatario delle parole di Gesù che abbiamo posto in evidenza: “Come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri?” (Gv 5,44). Queste parole sono molto forti, a livello dialettico, poiché accusano quei “Giudei” di una mascherazione della loro religiosità dietro compiacenze di gloria umana. Dio, cioè – e la fede in lui – vengono strumentalizzati al fine di un appagamento che non possiede alcuna reale disposizione alla fede autentica, ma unicamente una ricerca di umano prestigio mediante la pubblica rivendicazione di essa. Dire di credere in Dio, senza affatto credervi; volersi manifestare quali persone di fede, quando non la si possiede. Ossia, più semplicemente, essere degli ipocriti, secondo l’etimologia del termine. Questa accusa di Gesù ai “Giudei” si inserisce nel lungo discorso di Gesù che Giovanni evoca al capitolo 5 del suo Vangelo, ossia quell’apologia che Gesù pone dinanzi ai suoi avversari dinanzi all’assurda accusa di aver guarito un uomo, infermo da 38 anni, in giorno di sabato. Nel Vangelo di Giovanni è questo l’episodio a seguito del quale, per la prima volta, si dice che i “Giudei cercavano di ucciderlo” (Gv 5,18). Gesù tuttavia non teme affatto l’accusa dei “Giudei” – conoscendone l’ipocrisia nel movente – bensì pone la discussione a livello stesso del “credo” oggettivo di quei “Giudei”: in che cosa, cioè, essi credono? Dalle parole di Gesù, che non si esauriscono certo a quelle da noi evidenziate, l’esito è assolutamente negativo dinanzi alla valutazione di quella fede dei “Giudei”: essi, infatti, non credono: non soltanto in lui in quanto Figlio di Dio, ma nemmeno in Dio stesso, non “potendo” – per come concepiscono la fede – credere realmente in lui. Infatti, ricevendo gloria gli uni dagli altri, snaturano a livello ontologico la stessa fede in Dio, che dalle stesse parole di Gesù è l’unico a possedere la gloria. Non si tratta affatto, qui, di un battibecco teologico fra due opposti avversari, ma della Voce stessa di Dio che, nel suo Figlio, accusa quei “Giudei” di una indebita appropriazione di ciò che “viene da lui solo”, ossia la gloria stessa. In questa condizione dello spirito, il presunto atto di fede non solo è irreale, ma impossibile da attualizzarsi. Dice infatti Gesù: “Come potete credere…”, enfatizzando come – su queste basi teologiche – la fede in Dio sia inammissibile. Pur venendo dalla sua stessa Voce di Figlio di Dio, questa accusa di Gesù ha tuttavia un ulteriore pretesto di conferma. Gesù, infatti, evidenzia che sebbene sia lui stesso – nell’attualità sensibile di quel frangente storico – a porre quest’accusa dinanzi ai “Giudei”, vi è un altro testimone, davanti al Padre, di questa condizione ipocrita della fede rivendicata dai “Giudei”, ossia Mosè. Dire “Mosè”, in quel contesto dialettico, implica dire il massimo elemento possibile di una oggettiva testimonianza di verità teologica, nel senso che egli viene inteso come “ultimo appello” da parte dei “Giudei” per la valutazione di una situazione difficoltosa sulla conoscenza di Dio. È Mosè – in tal senso – colui nel quale “i Giudei” hanno posto la loro speranza (Gv 5,45), come Gesù stesso sottolinea. Tuttavia, questa dinamica di deposizione della speranza – nelle parole di Gesù – evoca ai “Giudei” un controsenso ipocrita di natura teologica: sperare in Mosè, infatti, implica assecondare l’offerta che Gesù stesso pone, mediante le sue opere, di credere in lui. Respingendo questa fede in Gesù, ci si autoaccusa non soltanto dinanzi al Padre, ma anche dinanzi a quello stesso Mosè nel quale si dice di riporre la propria fiducia. Gesù tuttavia non si ferma all’accusa, ma la esplicita a livello eziologico, ossia dice anche il perché di essa e su quali basi essa si fonda. E la base fondamentale è questa: “Se credeste a Mosè, credereste anche a me, perché di me egli ha scritto” (Gv 5,46). La parola di Mosè ha quindi una tensione cristologica. Ciò che tuttavia è maggiormente sconcertante, secondo Gesù, è che questi “Giudei” di fatto non credano nemmeno a Mosè. Dice infatti Gesù: “Se non credete ai suoi scritti, come potete credere alle mie parole?” (Gv 5,47). Qui il verbo “credete” (greco: pisteuete), è quello più enfatico della fede a livello di principio; quindi, detto al negativo, ossia “non credete”, indica in Gesù un senso chiaro di “non avete fede” come siamo soliti intenderla. E dunque la non-fede di quei “Giudei”, che a livello immediato sembra unicamente rivolta a Gesù (cioè nel senso che non credono in lui), in realtà sale su, passando da Mosè, fino al Padre in una permanente negazione. Tutto questo a motivo di una causa fondamentale, di ordine non solo etico, ma anche teologico, che appunto rende “impossibile” l’atto autentico di fede: cercare gloria gli uni dagli altri, ossia contraddire l’amore nella sua umiltà e gratuità, e contraddire Dio stesso, dal quale viene la gloria vera.
Amen
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