«Dov’è quel tale?» – cioè Dio. Dal testo di Gv 7,11
Nel capitolo 7 del Vangelo di Giovanni, si legge dell’avvento della Festa delle Capanne, una festa importante per i Giudei. Il capitolo, tuttavia, inizia con una precisazione dell’Evangelista, ossia che Gesù in quel tempo si era portato in Galilea, dal momento che in Giudea – e tanto più a Gerusalemme – cercavano di ucciderlo. Al che “i fratelli di Gesù” (non quelli apostolici), un po’ maliziosamente insinuano in lui l’idea di andare a Gerusalemme, poiché – dicono – se lui è il Messia, non è bene che agisca di nascosto. Gesù risponde che il suo tempo non è ancora venuto, che il mondo odia lui, non i suoi seguaci, dal momento che è lui solo a indicarne il peccato: e dunque vadano loro alla festa, senza di lui.
Tuttavia, specifica l’Evangelista, andati via i suoi fratelli, anche Gesù – ma di nascosto – andò alla festa. Ed ecco, l’Evangelista descrive come fossero a Gerusalemme gli animi “in attesa” di Gesù: “Dov’è quel tale?” – dicevano i Giudei. E, una volta resisi conto che Gesù stava insegnando al Tempio, dicevano: «Come mai costui conosce le Scritture, senza avere studiato?».
Una duplice umiliazione data a Dio da questi Giudei. Quelli infatti a cui Giovanni Evangelista attribuisce queste parole, non sono “Giudei” popolani, senza cultura, venuti a Gerusalemme unicamente per ossequiare la festa. Di questi ultimi, Giovanni specifica come parlassero di nascosto, per paura dei Giudei. Al contrario di essi, i “Giudei” che qui Giovanni evoca sono dei dottori della legge, o comunque persone altolocate che hanno una assoluta confidenza con la Legge e la Scrittura. Sono cioè “docenti”, che insegnano al popolo. E questi docenti, “ignorano” totalmente l’identità divina di Colui che è dinanzi a loro, definendolo dapprima come “quel tale”, e poi chiedendosi come mai, lui “senza cultura”, parli come uno che la possieda. Non hanno cioè capito nulla non solo di Gesù, ma nemmeno di quel Dio che insegnano con orgoglio alla gente. Non a caso, Gesù dice loro che, sebbene conoscano la Legge, nessuno di loro la osservi, e che quanto egli dice e fa, non viene da se stesso, ma dal Padre, che essi non conoscono. Ora, quando chi pensa di sapere qualcosa, viene umiliato nella sua conoscenza, spesso reagisce con veemenza, tanto di più quando questa conoscenza ha Dio per oggetto. E l’unico modo che questi Giudei hanno per replicare a Gesù – non possedendone altri – è quello dell’offesa e dell’accusa. E così, “quel tale”, che non si capisce dove abbia appreso tanta conoscenza”, ora viene da loro accusato di “essere un demonio”. Per quale motivo, a livello oggettivo? L’autodifesa di Gesù, che domanda il perché essi vogliano ucciderlo. Negando l’evidenza, quei Giudei non possono che cadere nella menzogna – che è tipica del demonio – fingendo come assurda l’accusa che qualcuno di loro voglia ucciderlo. In verità, tuttavia, quei Giudei “Dio” l’hanno già ucciso, dalla loro vita religiosa e in quella di tante innocenti anime che li hanno ascoltati come docenti e maestri della fede. Lo hanno ucciso già, nel momento in cui, come Gesù ha sottolineato (con molto coraggio), nessuno di loro osservi la Legge, ossia ciò che sino a quell’ora Dio ha dato loro come rivelazione della sua volontà di salvezza.
Negando di volerlo uccidere (cosa che subito dopo sarà pubblicamente smentita dalle voci della folla), e dandogli del “demonio”, quei Giudei negano se stessi nella loro stessa negazione della verità, appellandosi al capo della menzogna per descrivere colui che invece sono essi stessi a rappresentare con la loro ipocrisia.
Questo infelice momento della vita di Gesù, che prelude poi alle dolorose ore della sua passione, non è un “unicum” della storia, ma ha purtroppo delle continuità etiche anche oggi, talvolta a parti inverse: siamo cioè noi cristiani ad emarginare quel Dio che, in Gesù, noi diciamo di servire, al modo di chi dice nella sua mente: “Dov’è quel tale?”, invidiando chi ne sa evidentemente più di noi, sebbene pensiamo di avere dei titoli di conoscenza (“Come mai conosce le Scritture, senza avere studiato?”), e, invidiosi di lui e volendolo “uccidere” quantomeno nel nostro cuore, non sapendo come sbarazzarcene, diciamo: “È un demonio”.
Amen
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