“Gesù si commosse” – Mt 20,34 – (Σπλαγχνισθεὶς δὲ ὁ Ἰησοῦς)

Jesus The Christ — dramoor: Healing, by J. Kirk Richards

“Gesù si commosse” (Mt 20,34)

(Σπλαγχνισθεὶς δὲ ὁ Ἰησοῦς)

Immaginare Gesù che – storicamente – si commuove, non è molto semplice da un punto di vista emozionale. Come si “commuove”, infatti – in senso umano – colui che è il Figlio eterno di Dio? La difficoltà sta nella comprensione dell’estensione immensa, infinita, di questa compassione di Gesù per gli uomini, e per gli uomini malati in specie. L’Evangelista Matteo nel versetto citato si riferisce all’incontro con due ciechi seduti sulla strada che Gesù ebbe uscendo da Gerico. La loro supplica di riavere la vista “lo commosse” e lo indusse a guarirli. E tuttavia Matteo stesso non usa questo verbo, così complesso (e nella fonetica italiana arduo da pronunciare), ossia “splanchnisdomai”, unicamente per esprimere una “commozione” nel senso di uno stato emotivo dinanzi alla visione di un malato. Questo verbo è applicato a Gesù per un ben più radicale moto interiore del suo spirito, che lo conduce a “frantumarsi nelle viscere” per la partecipazione ad una altrui esperienza di sofferenza o di disagio. Ad esempio, dice sempre Matteo, Gesù “vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore” (Mt 9,36). Per questo Gesù chiede ai suoi di pregare che il Padrone della messe mandi nuovi operai nella sua messe.

In un altro passo, ancora Matteo evidenzia una scena simile che coinvolge la sensibilità umana di Gesù: “Egli, sceso dalla barca, vide una gran folla e sentì compassione per loro e guarì i loro malati” (14,14). Qui l’immediato effetto/reazione alla compassione è nuovamente la guarigione dei sofferenti, come nel caso citato sopra dei due ciechi. Gesù, tuttavia, in Matteo vive un sentimento di compassione, per quanti lo seguono e, a motivo di questo, soffrono, che non è soltanto “silenzioso” nell’intimità di Gesù, ma viene esteriorizzato e comunicato da lui stesso. Dice ad esempio Gesù all’inizio del racconto della (seconda) moltiplicazione dei pani: “Sento compassione di questa folla: ormai da tre giorni mi seguono e non hanno da mangiare” (Mt 15,32). E subito Gesù provvede al miracolo della moltiplicazione dei pani.

La compassione non è un sentimento che può rimanere senza soluzione oggettiva e pratica, in Gesù: ad essa egli pone sempre un rimedio concreto, operando il bene che supplisca a ciò a motivo del quale egli vive questo stato d’animo. Gesù è cioè soggetto partecipe di ogni umana “passione”. Anche nelle sue parabole, tuttavia, Gesù trasmette l’esperienza di questa compassione che, al di là dei soggetti narrati, gli è propria intimamente. Quando ad esempio racconta la parabola del re che condona tutto il debito al servo che non ha come rifoderarlo, viene detto che quel re “ebbe compassione di lui” (Mt 18,27).

La compassione di Gesù, per come Matteo ce la presenta (ma anche i Sinottici seguono la stessa via), è una compassione “viscerale”, una partecipazione tanto attiva alle necessità altrui da non poter in alcun modo essere trattenuta. E questo accade, spesso, ancor prima che siano gli altri a domandare aiuto, a cercare cioè la sua compassione, come nel caso della moltiplicazione dei pani. Gesù conosce le esigenze interiori di ogni uomo, e ne compatisce la pena interiormente; e tuttavia nella sua umanità condivide anche esteriormente gli effetti di ogni dolore, sia guarendo il soggetto malato, sia confortandolo con la sua parola e la sua stessa presenza.

Ora, sapere che in Gesù Dio ha compassione di ognuno di noi, è una infinita consolazione. Dio è infatti coinvolto direttamente nelle nostre necessità e non passa oltre esse, non ne trascende il carico di sofferenza, ma lo assume su di sé, e in tal modo lo risolve, nel suo Figlio Gesù. Da qui la grande speranza per ognuno di noi: che Gesù ci compatisca, che le sue viscere siano intimamente urticate dal desiderio di aiutarci, di liberarci e di guarirci dalle nostre afflizioni. Amen

 

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