“Gesù si ritirava in luoghi solitari a pregare (Lc 5,16)” – Quando Dio “conduce nel deserto per parlare al cuore”

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“Gesù si ritirava in luoghi solitari a pregare (Lc 5,16)” – Quando Dio “conduce nel deserto per parlare al cuore” – Una Catechesi di S. Giovanni Paolo II:

“[…] Sappiamo che durante la sua attività messianica il Maestro molte volte si ritirava nella solitudine per pregare, e che passava in preghiera notti intere (cf. Lc 6, 12). Per questa preghiera preferiva quei luoghi deserti che predispongono al colloquio con Dio, così rispondente al bisogno e all’inclinazione di ogni spirito sensibile al mistero della divina trascendenza (cf. Mc 1, 35; Lc 5, 16).

Analogamente facevano Mosè ed Elia, come ci risulta dall’Antico Testamento (cf. Es 34,28; 1 Re 19,8). Il libro del profeta Osea ci fa capire che vi è una particolare ispirazione alla preghiera nei luoghi deserti; Dio, infatti, “conduce nel deserto per parlare al cuore” dell’uomo (cf. Os 2, 16).

Anche nella nostra vita, come in quella di Gesù, lo Spirito Santo si rivela Spirito di preghiera. Ce lo dice in modo eloquente l’apostolo Paolo in un passo della lettera ai Galati, che abbiamo già citato in precedenza: “. . . che voi siete figli di Dio, ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!” (Gal 4, 6). In qualche modo, dunque, lo Spirito Santo trasferisce nei nostri cuori la preghiera del Figlio, che rivolge quel grido al Padre. Perciò anche nella nostra preghiera si esprime l’“adozione a figli”, che ci è concessa in Cristo e per Cristo (cf. Rm 8,15). La preghiera professa la nostra fede consapevole nella verità che “siamo figli” e “eredi di Dio”, “coeredi di Cristo”. La preghiera ci permette di vivere di questa realtà soprannaturale grazie all’azione dello Spirito Santo che l’“attesta al nostro spirito” (Rm 8, 16-17).

[…] In realtà, soprattutto nell’insegnamento di San Paolo, lo Spirito Santo appare come l’autore della preghiera cristiana. Anzitutto perché sprona alla preghiera. È lui che genera il bisogno e il desiderio di ottemperare a quel “Vegliate e pregate” raccomandato da Cristo, specialmente nell’ora della tentazione, perché “lo spirito è pronto ma la carne è debole” (Mt 26, 41). Un’eco di questa esortazione sembra risonare nella esortazione della Lettera agli Efesini: “Pregate . . . incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilate a questo scopo con ogni perseveranza . . . perché mi sia data una parola franca, per far conoscere il mistero del Vangelo” (Ef 6, 18-19). Paolo si riconosce nella condizione degli uomini che hanno bisogno di preghiera per resistere alla tentazione e non cadere vittime della loro umana debolezza, e per far fronte alla missione a cui sono chiamati. Egli ha sempre presente e in qualche momento sente in modo quasi drammatico la consegna che gli è stata data, di essere nel mondo, specialmente in mezzo ai pagani, il testimone di Cristo e del Vangelo. E sa che ciò che è chiamato a fare e a dire è anche e soprattutto opera dello Spirito di verità, del quale Gesù ha detto: “prenderà del mio e ve l’annunzierà” (Gv 16, 14). Trattandosi di una “cosa di Cristo” che lo Spirito Santo prende per “glorificarlo” mediante l’annuncio missionario, è solo con l’entrare nel circuito di quel rapporto tra Cristo e il suo Spirito, nel mistero dell’unità col Padre, che l’uomo può svolgere una simile missione: la via d’ingresso in tale comunione è la preghiera, suscitata in noi dallo Spirito. […]”

(S. Giovanni Paolo II, Udienza del 17 aprile 1991, nn. 1-2.4)

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