La coronazione di spine come capacità di pungere e al contempo di essere feriti

La coronazione di spine come capacità di pungere e al contempo di essere feriti

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La coronazione di spine di Gesù non è solo un fatto storico – che tra l’altro interessa molto poco agli storici – ma un fatto teologico di immenso significato. In quell’evento, infatti, ogni uomo della storia viene contemplato come partecipe, sia a livello soggettivo – cioè come agente umano che corona di spine Gesù sul capo – sia a livello oggettivo, nel senso delle spine con le quali a sua volta si sente punto nel capo lui stesso. Siamo cioè duplicemente inclusi nell’evento teologico del Dio-Uomo che viene miseramente “ridicolizzato” – secondo il pensiero di chi compì storicamente quel gesto – mediante un simbolo doloroso che sbeffeggi la sua presunta regalità. I nostri peccati sono parte integrante di quelle spine. In alcune rivelazioni private (S. Brigida, S. Matilde, ecc.) Gesù parlava di oltre trecento ferite sul suo capo prodotte da quelle spine. Gli studiosi si interrogano se, come sembra, Gesù abbia “indossato” quella corona per tutto il tempo della sua passione, fin sulla croce, dal momento che non si dice che gli sia stata tolta (così pensano ad esempio R. Brown e quelli della sua scuola esegetica). E tuttavia questi elementi sono ancora una volta di tipo “storico”: la teologia della coronazione di spine ci impone invece di riflettere sulla nostra capacità di pungere dolorosamente il nostro Salvatore nella sua mente, nella sua attività pensante, nei suoi desideri, nelle sue attese, nei suoi ricordi. Egli infatti si ricorda di noi, al momento della nostra creazione, e ancor prima, quando eravamo unicamente nel pensiero di Dio, santi e immacolati. Ed insieme a questo, egli già ci vede nel futuro, per come saremo, e sa se e come quel gesto aberrante posto da noi contro il suo capo, influenzerà la nostra stessa esistenza futura. Gesù ci mostra, con quelle spine, di che cosa siamo capaci noi uomini, con la nostra superbia, con la nostra capitale malizia e la nostra ribellione a chi, indicandoci la via della Verità, blocca l’impeto e l’impulso di alcune nostre scelte, corrose di umanità e di senso mondano. Gesù patisce non soltanto “con” noi, ma primariamente “per” noi a motivo di quelle spine. Ognuna di esse getta del sangue fuori dalla sua testa e lo fa colare giù, lungo il corpo. Ivi ci viene offerta una occasione unica di salvezza. Abbeverarci di vita laddove, con la nostra colpa, abbiamo seminato la morte. Di qui l’altro aspetto, quello che dicevamo “oggettivo”, cioè il nostro essere a nostra volta coronati di spine nella nostra esistenza. Qui il senso del patire “con” noi prevale su quello del patire “per” noi di Gesù, inversamente rispetto a prima. Egli infatti accetta quel dolore spinoso come somma partecipazione di Dio alle spine dell’esistenza umana, mediante l’incoronazione spinosa dell’Uomo perfetto, che evochi a noi come, nel disegno creatore di Dio, l’Uomo non dovesse conoscere in alcun modo l’esperienza del dolore. Gesù ci salva da noi stessi, quindi, sia in quanto folli carnefici che lo irridono e pungono mediante il peccato, sia in quanto vittime a nostra volta dell’esistenza e del dolore ad essa associato. La sua pietà infinita ha questo duplice sguardo di redenzione. Il “re” è seduto sul seggio del giudizio, incoronato di spine (così ad esempio il De la Potterie interpretava la scena dell’Ecce homo giovannea). E noi siamo tutti lì, al contempo suoi accusatori, in questo sedotti dal maligno, e insieme assolutamente bisognosi del suo giudizio di salvezza, che ci liberi e ci salvi da noi stessi, incatenati dai nostri peccati e dai loro effetti. Quelle spine divengono dunque massimamente eloquenti per noi. Se è ferito il Capo dell’Uomo, lo è inevitabilmente tutto il Corpo. L’occasione è quanto mai quella di una ineffabile unità partecipativa. L’aspetto “pungente”, infatti, della nostra colpa, che follemente ci induce ad incoronare di spine il nostro Salvatore, ossia l’Uomo innocente umiliato dalla nostra condotta, diviene a motivo di quel sangue che copiosamente fluisce dal Capo l’agente stesso della nostra riparazione nelle ferite esistenziali che viviamo, illuminandoci rispetto alla gravità di alcune nostre scelte umane e della necessità impellente di una redenzione su noi stessi, in modo speciale sul nostro capo, dal quale tante cattive azioni vengono ideate e progettate. E quel sangue è la nostra provvida salvezza, in tal senso. Sulla croce tutto il nostro corpo, la nostra storia, il nostro vissuto sarà redento. Ma in quel momento singolare, in quel tratto della passione di Cristo nel quale egli viene coronato di spine, la nostra redenzione conosce un momento rilevante per quanto attiene alla nostra autocoscienza di uomini capaci al contempo di ferire e di essere feriti, e pertanto necessitevoli insieme di perdono e di assistenza. Amen

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Pubblicato da lacasadimiriam

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