L’estasi, anche nel più grande dolore, quando è vissuto per Cristo

L’estasi, anche nel più grande dolore, quando è vissuto per Cristo

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C’è sempre un’estasi, anche nel più grande dolore, quando esso è patito per Cristo. L’estasi intesa come uscita da se stesso, proprio nel momento in cui il dolore perimetra ed umilia il “sé stesso”, lo offende nella sofferenza e tenta di schiacciarlo nella speranza. L’estasi è quella luce di grazia che anche in mezzo alle fiamme, dove le fiamme simboleggiano l’estremità di un dolore possibile, rallegra comunque il cuore, essendovi una ragione formale, nel senso di una “spiegazione che dà una forma” a quel dolore, e che è Cristo stesso. Soffrire per Cristo non è più quindi soltanto un soffrire, ma anzi un superamento della sofferenza intesa come giogo imposto all’esistenza. Un superamento della sofferenza, non perché non si soffra più – anzi, talvolta questa sofferenza raggiunge manifestazioni estreme – quanto piuttosto perché della sofferenza viene abbattuto il flagello della solitudine e reciso il cordone della disperazione. Soffrire per Cristo è infatti sempre un soffrire con Cristo, ossia con Dio stesso, e dunque mai da soli, e non soltanto “non soli” come uno che vive una esperienza (in questo caso dolorosa) “con” qualcuno, ma addirittura con Dio. Questa presenza di Cristo nel dolore è il suo stesso superamento, è quell’estasi nel dolore che fa prevalere la gioia sulla sofferenza, e in modo radicale, sino a rendere addirittura auspicabile quel dolore. I santi hanno vissuto questa esperienza. Hanno percepito questo movimento estatico dell’anima anche appesi sulle croci, o torturati dalle bestie o accesi come lampioni in mezzo ai roghi. L’amore per Cristo, infatti, domina la sofferenza, comanda all’umano senso di fuga da essa e piuttosto lo benedice quando esso funge da strumento di testimonianza dell’amato. Chi ci separerà, dunque, dall’amore di Cristo? San Paolo ha posto questa domanda (cf. Rm 8,35), lui al quale Gesù ha manifestato quanto avrebbe dovuto soffrire per il suo nome (cf. At 9,16). E la risposta sussiste in un elogio della fede, poiché avendo un’autentica fede in Cristo, non sussiste alcuna sofferenza capace di sradicare l’uomo dall’amore di Cristo, ossia da quell’esperienza estatica nel dolore che non solo ci rende simili a Cristo in un modo privilegiato, ma addirittura ci consegna a lui in modo definitivo. Ossia: dal dolore si inizia a vivere, e a vivere in eterno, della vita senza fine, della vita che è Cristo, e questo mediante l’economia estatica del dolore stesso, senza il quale l’inclinazione umana, appianata nella valle del mondo, non sarebbe altro che una esposizione luciferina all’esistenza. Una vita in tal senso vuota, scaricata in ogni emozione, ma transeunte, declinante prima o dopo verso l’abisso, ossia verso il dolore che non conosce alcuna luminosa esperienza estatica, ma unicamente se stesso, nella sua non riparabilità, nella sua morte senza fine.

Benedetta sia dunque la sofferenza, quando è patita per Gesù Cristo. Benedetta sia la sua venuta, nell’esperienza umana, quando abolisce la tirannia dell’egocentrismo ed eleva l’anima umana alla conoscenza della vita vera. Benedetto quell’istante, fosse pure di una vita intera, nel quale per Gesù si soffre e per lui si muore, nell’invincibile speranza che al contempo con lui si vive e mai più si soffre, né mai più si muore, e alla verità è stata resa testimonianza mediante quell’attimo, terreno, di benevolo dolore. Amen

 

Pubblicato da lacasadimiriam

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