“Molti credettero nel suo nome, vedendo i segni che faceva”
(Gv 2,23) – “πολλοὶ ἐπίστευσαν εἰς τὸ ὄνομα αὐτοῦ, θεωροῦντες αὐτοῦ τὰ σημεῖα ἃ ἐποίει”
Quando la fede sorge e si esaurisce esclusivamente a livello di una esperienza sensibile, ossia “vedendo i segni che Gesù faceva”, lo stesso Gesù non se ne rallegra. Subito dopo questo versetto, non a caso, l’Evangelista Giovanni sottolinea il riserbo e la discrezione di Gesù dinanzi a questi neo-convertiti, i quali unicamente a livello sensibile hanno istituito la loro fede. Non che i segni non siano effettuati da Gesù nella direzione della fede: tuttavia essi non devono costituirne la sostanza, ma l’alimento, l’illuminazione, il crocevia. Anche i Giudei chiedono – ripetutamente – dei segni a Gesù (es. Gv 2,18, ecc.): ma questa richiesta di segni è finalizzata alla soddisfazione degli appetiti individuali, non all’umiltà della fede e all’abnegazione di se stessi dinanzi alla verità di Gesù. E per questo molte volte Gesù si astrae da questo tipo di “significazione” di se stesso. I “segni” che Giovanni Evangelista riporta di lui, in tal senso, non sono che una manciata, rispetto a quelli da lui stesso oggettivamente compiuti. E questi ultimi, tuttavia, non costituiscono la materia della fede in Gesù, ma un sussidio esperienziale ad essa, dal momento che la fede può sussistere – e in modo pieno – anche prescindendo totalmente dall’esperienza dei segni. Quando Gesù si lamenta dicendo: “Se non vedete segni e prodigi, voi non credete” (Gv 4,46), evidenzia proprio questo limite – così marcatamente umano – della fede in lui.
Amen
Edizioni Cattoliche La Casa di Miriam
Piazza del Monastero, 3 – Torino
Tel. 3405892741
www.lacasadimiriam.altervista.org