“Perché parli loro in parabole?” (Mt 13,10: “Διὰ τί ἐν παραβολαῖς λαλεῖς αὐτοῖς;”) – La non-accoglienza della parola di Gesù, che presuppone l’esistenza di questo suo linguaggio parabolico

“Perché parli loro in parabole?” (Mt 13,10: “Διὰ τί ἐν παραβολαῖς λαλεῖς αὐτοῖς;”) – La non-accoglienza della parola di Gesù, che presuppone l’esistenza di questo suo linguaggio parabolico

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Ad un certo momento della sua predicazione, Gesù incontra l’interrogazione dei suoi discepoli sul perché del suo linguaggio parabolico nei riguardi delle folle (cf. Mt 13,10). I discepoli, infatti – quelli più intimi a Gesù – hanno notato la persistenza di questa via linguistica della parabola nell’approccio di Gesù alle folle stesse, cosa che non riguarda invece loro stessi, i discepoli, ai quali Gesù parla in un modo esplicito, senza il “velo” retorico della parabola. Gesù non nega affatto l’osservazione discepolare, ma anzi la fomenta nella sua risposta, dandone la spiegazione. E tale spiegazione, può in un certo modo sorprendere, per una certa severità teologica, la quale è tuttavia in linea di continuità con quanto annunciato molti secoli prima dal profeta Isaia, al quale pure era stato dato l’incarico di presentare un annuncio di salvezza a della gente che non avrebbe accolto, in larga parte, l’essenza stessa della sua comunicazione. Lo stesso Gesù, rispondendo alla domanda dei suoi discepoli sul perché delle parabole, si appoggia ad Isaia, anche se Matteo non riporta in modo identico, nella sua citazione del profeta, le parole che si rinvengono nel libro dello stesso Isaia, al capitolo sei, dove appunto viene preannunciata l’incomprensione degli uditori isaiani. Si deve quindi accogliere il messaggio di Gesù, relativamente al perché del suo linguaggio parabolico, più secondo i contenuti che non secondo la lettera. E questi contenuti, che Matteo riporta nel capitolo 13 del suo Vangelo, sono di natura teologica: le parabole, cioè, sono uno strumento linguistico adeguato all’attitudine dialettica di chi, pur dinanzi all’oggettività di un determinato discorso, esula dal suo senso e ne viola la comprensione: “Pur vedendo, non vedono, pur udendo non odono e non comprendono” (13,13). La parabola è quindi una metodologia comunicativa con la quale Gesù crea un ponte fra la sincerità e la verità della sua parola e la non comprensione dei suoi uditori, i quali volutamente si astengono dall’adempimento cognitivo del messaggio di Gesù. La profezia di Isaia si situa nel medesimo filone di senso, tanto che Gesù stesso la cita (cf. Mt 13,14-15). Sembra che, dal punto di vista della parola di verità, le cose non siano cambiate affatto, nonostante i quasi otto secoli che separano il più messianico dei profeti, cioè Isaia, dal Messia stesso, Gesù: le “folle”, infatti, cioè la maggior parte degli ascoltatori, pur avendo i mezzi affinché l’ascolto della parola annunciata sia fruttuoso, volgono indietro le loro facoltà di conoscenza di essa e se ne vanno in una direzione distinta. La parabola, quindi, diviene una necessità linguistica, più che una pura scelta comunicativa di Gesù: per quanti, avendo la possibilità di udire, non ascoltano lo stesso, la via immediata della comunicazione della parola (cioè senza alcuna mediazione parabolica), è del tutto inutile. La salvezza non giunge ad essi nella linea dell’immediatezza comunicativa. Sono piuttosto i discepoli coloro che sono preservati da questa ostinata repulsione della comprensione del messaggio di Gesù. A loro, infatti, “è dato di conoscere i misteri del regno”, dice Gesù (cf. Mt 13,11), non per una preferenza pregiudiziale di Gesù stesso nei loro riguardi, ma per la sincerità della loro disposizione all’ascolto della sua parola. Per questo motivo Gesù dice loro che, ad essi, che già “hanno” (cioè l’orientamento all’ascolto di Gesù), ancora “sarà dato”, al modo di una integrazione noetica e teologica; a quanti invece già credono di avere ciò che è sufficiente alla conoscenza di Dio e di come essergli graditi (secondo criteri totalmente umani, indipendenti dall’ascolto di Gesù), Gesù annuncia la rimozione anche di quanto credono di possedere.

A compimento di quanto occorso a Isaia durante la sua predicazione profetica, Gesù sperimenta lo stesso tipo di rifiuto – da parte delle folle – della parola annunciata, con l’aggravante differenziale che, nel caso di Gesù, è lui stesso la Parola annunciata. Il rifiuto umano è relativo alla possibilità che, mediante Gesù, Dio risani il suo popolo (cf. Mt 13,15). In tal senso, al “mistero” della parabola, che rimane un messaggio vacuo a motivo dell’incredulità degli ascoltatori, si oppone il dono del discorso diretto sui misteri del regno che viene rivolto ai discepoli di Gesù, i quali sono “beati” non soltanto in quanto uditori privilegiati della sua parola, ma ancor di più quali testimoni oculari della sua presenza nel mondo. Un dono che né Isaia, né alcuno dei profeti ebbe alla loro pari (cf. 13,16), sebbene auspicato.

Quando, dunque, Gesù parla in parabole, al di là del fascino tecnico e letterario delle parabole stesse, va considerata teologicamente la non-accoglienza intrinseca della parola di Gesù che presuppone l’esistenza stessa di questo suo linguaggio parabolico. Amen

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