Nota al testo di M. Semeraro, “Mistero, comunione e missione”

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Nota al testo di Marcello Semeraro, “Mistero, comunione e missione

Introduzione

Si è scelto di analizzare il testo di Marcello Semeraro intitolato “Mistero, comunione e missione” per alcune ragioni ben precise che qui si intende riportare brevemente. Anzitutto il “fattore lingua” (italiana) ha giocato un ruolo importante. Si ritiene infatti che al di là delle lingue che si possano conoscere, la propria lingua madre permetta una considerazione più ampia dei contenuti, delle sfumature di significato, delle proposizioni ecc. che si vogliono porre in evidenza, soprattutto in un ambito linguisticamente delicato come quello ecclesiologico, dove una parola al posto di un’altra può fare la differenza in termini di significato. Tuttavia la scelta di questo autore non è stata dettata solamente da ragioni linguistiche. Si ritiene infatti che il Semeraro, per formazione accademica, esperienza teologica oltre che per la sua funzione episcopale rappresenti un buon punto di riferimento per avvicinarsi all’ambito della comprensione ecclesiologica, in particolare per quanto attiene all’ecclesiologia post-conciliare cui costantemente lo stesso autore si appella nei suoi scritti. Va precisato, tuttavia, il senso del termine “post-conciliare” qui sopra utilizzato. Esso, infatti, non ha un senso “temporale”, come ad indicare un periodo “di tempo” successivo al Concilio Vaticano II; piuttosto, ha un valore referenziale, cioè “di riferimento”, intendendo dire che l’autore in questione dimostra di avere pieno possesso di quanto il Concilio Vaticano II, che alcuni definiscono “un Concilio della Chiesa sulla Chiesa” ha ecclesiologicamente posto in evidenza, proprio “in virtù della sua forte propensione ecclesiologica” . Sembra chiaro, perciò, che scegliendo di studiare questo testo di Semeraro, si è voluto di conseguenza porsi in sintonia con il più grande insegnamento del Magistero a proposito di quel “Mistero della Chiesa” che in modo tutto particolare trova nel primo paragrafo della Costituzione conciliare Lumen gentium il principale punto di riferimento dottrinale.
Un’altra ragione ancora, tuttavia, soggiace alla scelta di questo autore. Il testo, infatti, presentato dallo stesso autore e senza indugio come un manuale di ecclesiologia, ha certamente il merito di addentrare il lettore, non necessariamente “addetto ai lavori” e quindi di provenienza extra-ecclesiologica, nei sentieri più intimi della Chiesa, portandolo ad un tu per tu ecclesiologico che in ultima istanza lo conduce a porsi la domanda personale: “Io, soggetto credente, quale coscienza ho della Chiesa che professo nel Credo?”-
Questa domanda, se non altro, è passata fra i pensieri di chi scrive questa relazione, inducendolo appunto a rileggere, questa volta più criticamente e meno “neutralmente” il testo di Semeraro, proprio per trovare delle chiavi didattiche per poter rispondere alla domanda sopra riportata, anche se questa solo a livello personale può, per ovvie ragioni, trovare una risposta.
Un’ultima ragione, infine, trova la sua radice a livello di visione ecclesiologica dell’autore. Infatti, è emerso subito, già da una prima lettura del testo, come l’autore volesse guardare alla Chiesa fondamentalmente come ad un Mistero, seguendo un “modello ecclesiologico desunto non più dal basso ma dall’alto” e ancora una volta di chiara derivazione conciliare.
L’intento sarà dunque proprio quello di guardare insieme all’autore a questo Mistero, sentendosi interrogati nella propria coscienza circa la sua essenza e, come si dirà più avanti, gettare alcune direttiva guida, come delle prue categoriali, per avere degli elementi ecclesiologici fondamentali cui appoggiarsi nella perlustrazione ecclesiologica del suddetto mistero della Chiesa.
Anzitutto, però, occorre perimetrare il testo studiato sottolineando quale area testuale viene qui di seguito analizzata. Si è effettuata, infatti, una scelta restrittiva del testo originale del Semeraro, che ha portato a considerare analiticamente solo i primi tre capitoli dell’opera, precisamente da pagina 7 a pagina 127. Questa restrizione è stata effettuata unicamente per una ragione di contenuti. Infatti, nelle pagine sopra riportate e qui di seguito analizzate, l’autore punta dritto al Mistero della Chiesa (capitolo 1), fissando lo sguardo in modo preliminare sull’essenza stessa della Chiesa secondo le classiche accezioni di Popolo di Dio, Corpo di Cristo e Tempio dello Spirito (capitolo 2). Di qui, l’autore prende allora in considerazione il risvolto “comunitario” della Chiesa, sempre tuttavia legato alla sua peculiare essenza (La Chiesa Comunione). Questi tre capitoli, considerato anche lo spazio assai esiguo destinato a questa nostra relazione, sembravano contenere materiale sufficiente a formulare un discorso ecclesiologico coerente e chiaro. Qualora, invece, fossero stati considerati anche i successivi capitoli, volti più a considerare le qualità della Chiesa (unità, santità, cattolicità e apostolicità), la sua struttura (ministero petrino, collegio episcopale, ecc.) ed infine il suo peregrinare terreno in vista della sua realizzazione escatologica (capitoli 4-5-6), probabilmente si sarebbero riscontrati troppi argomenti e tutti troppo importanti per poter essere assimilati ed amalgamati in una trattazione consapevole e chiara.
L’orientamento di chi scrive, tuttavia, non è quello reportistico o sintetico. Guardare a questo testo in vista di una ripetizione sintetica dei suoi quadri essenziali parrebbe un approccio assai elementare e deludente per chi invece si sente chiamato in causa personalmente dal testo e perciò intende offrire una propria personale visione della materia trattata. Ciò non significa, tuttavia, offrire un nuovo punto di vista (il proprio) accanto a quello dell’autore: questo sarebbe a sua volta una prerogativa ambiziosa e senza senso. Piuttosto si sceglie di rimanere fedeli al testo integrale ma con uno sguardo critico ed attivo, determinato a non lasciarsi passare addosso passivamente le tesi pronunciate dall’autore.
La trattazione cercherà pertanto di contraddistinguersi per la presenza di alcuni punti chiave, potremmo chiamarli i “temi caldi”, rispetto ai quali l’attenzione di chi scrive si è particolarmente concentrata. Essi sono: la Chiesa come Mistero, la sua origine trinitaria, il suo essere popolo di Dio, Corpo di Cristo e Tempio dello Spirito ed infine la differenza di significato fra la Chiesa intesa in senso universale e la Chiesa intesa in senso locale.
La fonte guida sarà ovviamente il testo di Semeraro, che tuttavia, come già sottolineato, chiama in causa costantemente il testo di Lumen gentium e più in generale tutto l’insegnamento magisteriale.

1. La Chiesa come Mistero

L’autore apre il suo libro intitolando il primo capitolo “Il Mistero della Chiesa”. Ora, questa scelta pare suggerita dalla Costituzione dogmatica Lumen gentium, che appunto intitola allo stesso modo il primo capitolo dell’opera. In realtà, al di là delle motivazioni che hanno portato l’autore, da un lato, ed i padri conciliari dall’altro, ad intitolare così i primi capitoli delle rispettive opere, soggiace un fatto evidente ed al contempo inquietante: la Chiesa è un mistero. Prima di vedere nel dettaglio il significato arcano di questa asserzione comunemente accettata dal buon senso ecclesiologico, occorre captarne la fonte e individuarne la ragione. Anzitutto questo: la Chiesa è compresa come Mistero proprio alla luce dell’incomprensione della sua essenza nella sua profondità più remota ed intima. Non è pertanto un assioma gettato in partenza, quasi a delegittimare un’indagine su che cosa sia la Chiesa, come a dire che tanto alla fine non lo si comprenderà mai in pienezza. In realtà è vero il contrario: è proprio il frutto di una indagine approfondita e che dura dalla sua origine, ciò che porta a concludere che nella sua pienezza la Chiesa è un Mistero. La differenza pare notevole. La visione di una Chiesa-Mistero, infatti, cui tuttavia non è negato ma anzi obbligato un approccio di continua ed incessante domanda, certifica per il credente la sua necessità impellente di appartenere a sua volta, nella sua vita, in qualche modo a questo mistero, scoprendo così come “prima ancora che una chiara nozione il fedele può averne quasi connaturata esperienza” (Paolo VI) .
Tuttavia esiste una fonte vera ed eterna di questo Mistero, che dunque non è fine a se stesso ma rientra in una logica coerente e opportuna: la Chiesa, infatti, è un Mistero Trinitario, “è in primo luogo espressione storica del mistero di Dio trino, l’attuazione della sua volontà salvifica” . Semeraro lo sottolinea pressoché continuamente nella sua opera, e a ragione. Quella infatti che oggi appare come un’evidenza ecclesiologica, cioè la Chiesa che ha la sua origine nella Trinità, in realtà è frutto di un’intuizione conciliare di partenza, e questo per due ragioni, l’una più strettamente dogmatica, l’altra più sociologica ed immanente. Nel primo caso, infatti, Semeraro fa memoria di come il Concilio abbia guardato alla Chiesa come “pedagogia divina in azione”, “mistero essa stessa ed al contempo destinataria del Mistero” . Essa risulta perciò prefigurata, pensata e voluta in un eterno disegno del Padre, che appunto la pensa come Chiesa di Cristo radunata nello Spirito Santo. Ciò significa non solo ammettere, ma riconoscere in senso pieno una Chiesa prima della Chiesa e preesistente al tempo, senza tuttavia cadere in incoerenze logiche o significati irrazionali. Il merito conciliare, cui Semeraro allude e che rappresenta, per chi scrive, un traguardo fondamentale, è l’aver affermato l’esistenza di “una grazia che precede la Chiesa (terrena), la motiva e la fonda” . Viene messo così in evidenza, pertanto, “un amore pre-esistente” quale causa e ragion d’essere della Chiesa nel tempo, la quale origine debilita ogni tentativo umano e totalizzante di appropriazione storica della Chiesa, di inquadramento nel tempo, di realtà unicamente umana. Questo conduce al secondo punto, che sopra è stato definito più sociologico ed immanente. Il motivo è proprio una visuale “societaria”, “categoriale”, in termini di organizzazione di uomini, di associazione umana, di un tutto istituzionale di fronte ad un singolo: è la societas perfetcta della precedente percezione della Chiesa, dalla natura molto istituzionale ed autoritaria. Questo modo di comprensione della Chiesa, che in particolare si è fatto vivo e presente nel secolo precedente al Vaticano II fino al periodo immediatamente anteriore ad esso, ha indubbiamente trovato ragion d’essere in virtù di necessità di ordine apologetico, pastorale, istituzionale, che in parte possono giustificarne l’origine e l’assimilazione ecclesiologica per così tanto tempo. Tuttavia è un limite per la Chiesa stessa l’essere ancorata entro una così rigida interpretazione societaria ed istituzionale. Lo stesso Congar, analizzando questo periodo storico, parlava di una “gerarcologia al posto dell’ecclesiologia” . Occorre tuttavia mettere in chiaro, onde evitare banali equivoci, che la Chiesa come Mistero Trinitario non è stata certo una scoperta, nel senso proprio del termine, del Vaticano II. Tale concezione appartiene allo stesso Dna della Chiesa, per lo meno dai tempi in cui si è sviluppata la teologia trinitaria fra i grandi Padri. È ben nota, in questo senso, la tesi ciprianica: “De unitate Patri et Filii et Spiritus Sancti plebs adunata” . Il Vaticano II, tuttavia, ha il pregio di porre come paradigma ecclesiologico questa verità della Chiesa, soprattutto alla luce delle precedenti interpretazioni sopra riportate, dando anima ad un vero e proprio schema trinitario della Chiesa: “il Padre, che dall’eternità pensa e vuole la Chiesa, il Figlio, che la genera sulla croce, lo Spirito, che sempre la vivifica e la rinnova” .
Una conseguenza correlata a questa nuova impostazione ecclesiologica conciliare si ha anche in termini di linguaggio. Se la Chiesa, infatti, ha un’origine trinitaria e quindi in ultima istanza una fonte insondabile dall’indagine umana, allora anche lo stesso umano linguaggio per definirla non potrà che risultare limitato e mai pienamente perfetto (linguaggio analogico). Tuttavia ciò non preclude, si ritiene, la strada al “parlare della Chiesa”, ma paradossalmente pare rafforzarla: se, infatti, la Chiesa ha nella Trinità il suo modello, allora sarà consentito parlare di lei attraverso un linguaggio certamente simbolico ma quanto mai efficace, poiché è il medesimo simbolismo con cui i cristiani, in particolar modo attraverso la liturgia, lodano e pregano la Trinità. Il rafforzamento, da parte di chi scrive, sta proprio in questo: l’impossibilità di racchiudere tutto il patrimonio ecclesiale in un unico concetto , che è una presa di coscienza fondamentale, porta comunque a poter “avvicinarsi” al Mistero della Chiesa ricorrendo alle molte immagini presenti già nella Scrittura ed abbondantemente riprese dalla Lumen gentium, senza mai cadere nel vicolo cieco dell’univocità di significato.
Per ragioni di spazio scritturistico, si preferisce in questa sede non addentrarsi in un commento teologico relativo a come, singolarmente, le Persone trinitarie agiscano nella costituzione della Chiesa. Ciò non priva, tuttavia, il successivo paragrafo, della possibilità di intervenire implicitamente in merito, “agganciandolo” alla trattazione che segue.
Si tiene tuttavia a sottolineare, a conclusione di questo paragrafo, come l’autore abbia molto sottolineato l’importanza di una comprensione basica della Chiesa come Mistero trinitario. Non è retorica ecclesiologica, né una partenza a testa bassa o un gettare le mani avanti. Piuttosto un profondo segno di maturità ed al contempo umiltà ecclesiologica. L’input di qualsiasi discorso sulla Chiesa, infatti, deve scaturire da una considerazione del proprio limite di partenza, che è un limite dell’uomo in genere e non del singolo, a trattare di una realtà che, se indubbiamente ha una natura umana ed è per questo umanamente comprensibile, ha al contempo una natura divina, perché fondata nella Trinità, la qual prerogativa frantumerebbe sempre qualsiasi tentativo di delimitazione o appropriazione gnoseologica del Mistero della Chiesa da parte umana.

2. La Chiesa Corpo di Cristo
Il titolo di questo paragrafo è in realtà una semplice provocazione da parte di chi scrive dal carattere tuttavia “ecclesiologicamente innocuo”. Come si vedrà, infatti, non vi sono titoli di altri paragrafi corrispondenti a “Il Popolo di Dio” o “Il Tempio dello Spirito”, il che farebbe pensare ad una interpretazione univoca o quantomeno privilegiata della Chiesa come “Corpo di Cristo”. In realtà non è così per nulla. Si tratta solo di voler mettere in evidenza un aspetto fondamentale della Chiesa, senza tuttavia isolarlo o decontestualizzarlo da altri aspetti come il suo essere appunto “Popolo di Dio” e “tempio dello Spirito”. La provocazione, tuttavia, forse sorge anche alla luce di una nota dello studioso L. Cerfaux, contemporaneo del Concilio Vaticano II e ben conosciuto dal Semeraro, che sosteneva un certo primato del concetto di Chiesa come popolo di Dio, per cui questa sarebbe “l’idea ecclesiologica fondamentale dell’apostolo Paolo, mentre tutte le altre, compresa quella di corpo di Cristo, non sarebbero che suoi aspetti particolari” . Forse questa definizione, che pure indubbiamente sorge a partire da determinate ragioni teologiche ha tuttavia un peso teologico di notevole portata e per questo non necessariamente condivisibile.
L’orientamento del Semeraro appare in prima istanza assai più prudente. Seguendo il classico schema trinitario, fedele come detto più volte alla “metratura” ecclesiologica del Vaticano II, l’autore imposta sì il discorso a partire dalla Chiesa come Popolo di Dio, senza tuttavia impostare alcun primato terminologico rispetto alle altre due formule (Corpo di Cristo e Tempio dello Spirito), cui dedica il medesimo spazio dogmatico.
Ora, parlare della Chiesa come popolo di Dio, è suscettibile di molti rischi. Il primo potrebbe essere un “entusiasmo” neotestamentario che porterebbe a dimenticare come l’espressione “popolo di Dio”, seppure non negli stessi termini, rappresenti il paradigma di tutta l’economia veterotestamentaria. Israele è il “popolo di Jhvh” (in ebraico ‘am Jhvh) distinto dai gojim (cioè gli altri popoli). Vi è una precisa alleanza, un atto di elezione, una scelta storica e radicale, al contempo una legge che unifica e sancisce Israele come realtà santa per Dio, alla quale è legato come per un vincolo di parentela . Tale relazione è tuttavia suffragata soltanto da un corrispettivo: che Israele “si faccia” popolo, cioè corrisponda all’iniziativa gratuita divina che lo chiama come suo popolo. Lo stesso popolo che gli eventi storici (negativi) di Israele frammenteranno in un semplice “resto”, a cui tuttavia si appella Dio stesso in vista del suo risveglio (cfr. Ger 31,31).
Se vi è perciò un paradigma veterotestamentario da tener presente parlando della Chiesa come Popolo di Dio, occorre tuttavia non dimenticare la grande novità di questo popolo nella Nuova Alleanza. La spiega bene J. Ratzinger: “Il fatto di essere popolo di Dio è cosa che ha in comune con l’Antica Alleanza; ma il suo esserlo nel Corpo di Cristo, questa è, per così dire, la sua differenza specifica, questo caratterizza il suo modo particolare di esistenza e di unità” . Se questa fondamentale osservazione di Ratzinger potrebbe, dato il contesto, troppo frettolosamente introdurre al tema della Chiesa Corpo di Cristo, essa è stata tuttavia collocata qui proprio per “arginare” quell’entusiasmo di cui si è parlato sopra, ed inoltre per solcare l’evidente palude che verrebbe a crearsi se il popolo di Dio neotestamentario non fosse pensato in Cristo. Del resto lo stesso Semeraro, che ha il merito stilistico, di fronte ad ogni definizione della Chiesa, di dedicare un paragrafo alle “possibilità e limiti della nozione”, evidenzia proprio il limite intrinseco alla nozione di Popolo di Dio, cioè quello di non rendere “immediatamente percepibile il principio cristologico che raduna questo popolo” . Tuttavia più che un limite in senso negativo, si tratta a parere di chi scrive di una contingenza propria del parlare analogico, per cui una nozione (Popolo di Dio) è complementare all’altra (Corpo di Cristo) e nessuna delle due può essere assolutizzata o considerata di per sé in modo perentorio.
Del resto è evidente (e la Lumen gentium lo insegna) quale sia il bagaglio di pregi e meriti propri della nozione di Popolo di Dio e che Semeraro saggiamente elenca:
– la possibilità di concepire chiaramente la continuità fra l’Israele antico e la Chiesa, Nuovo Israele
– la comprensione della Chiesa stessa come soggetto storico (al di là della sua origine trinitaria)
– l’unità della Chiesa seppure nella sua cattolica varietà
– il suo carattere missionario
– il suo non individualismo
– il suo essere popolo fra i popoli e le conseguenze antropologiche di questo “io credo” personale ma proclamato ad una sola voce .
Tuttavia, dopo il furore iniziale legato all’uso “dogmatico” di questa nozione, l’entusiasmo sembra essersi spento già poco dopo il concilio. L’uso del termine Popolo di Dio, infatti, ha rapidamente assunto colori grigi ed offuscati. È questo dovuto ad un cambio di interpretazione ecclesiologica della Chiesa, per cui la stessa nozione non verrebbe più ritenuta sufficientemente adeguata? Possibile questo, a così breve distanza dai lavori conciliari? O forse c’è un “cristocentrismo nostalgico” che vorrebbe sempre e comunque privilegiare una terminologia cristologica per parlare della Chiesa? L’autore si limita a sottolineare il “rischio linguistico” del termine “popolo”, soprattutto in riferimento ai fatti sociali del periodo conciliare ed all’uso ideologico del termine. Tuttavia il fatto di concepire l’intera Chiesa come un popolo, pone in evidenza la comune dignità di tutti i battezzati e perciò il valore del sacerdozio comune di tutti i fedeli, affermato appunto dal Concilio . È vero anche, d’altro canto, che l’espressione Corpo di Cristo non sembra precludere questa interpretazione, ma semmai porla ancora di più in evidenza. Non è lo stesso parlare di comune dignità di tutte le membra?
Da parte di chi scrive c’è una certa inquietudine teologica di fronte alla fossilizzazione sul senso di queste nozioni. Pare infatti assumere troppa importanza il fatto che la Chiesa sia meglio espressa con la nozione “Popolo di Dio” o con quella di “Corpo di Cristo”, tralasciando spesso (come alcuni teologi fra cui Bossuet hanno notato) la radicalità pneumatologica della Chiesa stessa. Eppure di fronte a queste nozioni talora paiono crearsi veri e propri infantilismi ecclesiologici, volti addirittura a parteggiare accanitamente per l’una o per l’altra, quasi come se la quiddità della Chiesa stessa fosse radicata in questa oppure in quella. Certo vi è tutta una tradizione scritturistica, anzitutto, che volge nell’una o nell’altra direzione, ma non vi è mai opposizione polare né antitesi. Un esempio: lo stesso apostolo Paolo, che secondo Cerfaux aveva in mente in maniera primaria l’idea di Chiesa come Popolo di Dio, era allora in comunione di pensiero con Pietro, lo stesso Pietro di 1Pt 2,9-10 dove si cita espressamente il termine “Popolo di Dio”; eppure è lo stesso Paolo che a più riprese (es. 1Cor 12,12-27; Rm 12,4-6; Ef 4,4; ecc.) definisce ed intende chiaramente la Chiesa come Corpo di Cristo, evidentemente senza alcuna contraddizione di significato.
Ma cosa significa, realmente, per un cristiano essere Corpo di Cristo? Posta così, la domanda sembra nuovamente far richiamo alla coscienza della propria appartenenza alla Chiesa. Il mio appartenere a questo “mistico” corpo in che maniera cambia la mia esistenza? Indubbiamente, come fa con molta prudenza Semeraro, occorre capire come Paolo concepisse il corpo umano. Secondo l’autore, la prospettiva paolina non era di stampo ellenistico, ma di matrice semita, “intendendo con il termine “corpo” (basar) l’uomo come animato dal soffio vitale (nefesh) e l’uomo nella sua fenomenicità, nel suo rendersi manifesto agli altri e percettibile da loro – il corpo come principio di relazione) . Vista da questa prospettiva spazio-temporale, la Chiesa Corpo di Cristo rappresenterebbe Cristo stesso nella sua visibilità. Tuttavia Paolo non sembra voler intendere solo questo. Egli stesso pare “altalenare” la sua concezione della Chiesa Corpo di Cristo fra due diverse angolature di significato. La prima guarda il rapporto fra la Testa (Cristo capo) ed il corpo, puntando quindi ad una interpretazione egemonica, gerarchica ed autoritativa della Testa sul corpo, per cui “la Chiesa qui è corpo di Cristo solo nella linea di una totale dipendenza dal capo” . L’altra, invece, come sottolinea l’autore, riprende un concetto più ellenistico di “testa come principio di animazione del corpo, attraverso le sue articolazioni” (cf. ad es. Ef 4,16 e Col 2,19). In questa direzione, la funzione di Cristo, più che autoritativa (che pure è presente) è unitiva rispetto al corpo.
Al di là della “più pura” intenzione paolina a livello lessicale, preme qui sottolineare un rischio notevole in questa nozione cristologica. Ricordando infatti come il termine “Corpo di Cristo” sia utilizzato anche in ambito eucaristico (Corpum verum) e che lo stesso termine indica somaticamente la realtà umano-divina di Cristo ascesa al cielo dopo la Resurrezione, si potrebbe incappare in una confusione di significati o comunque in un allegorismo terminologico dalle conseguenze disastrose (si pensi quale danno porterebbe una interpretazione solo “allegorico-simbolica” del termine “Corpo di Cristo” in ambito eucaristico!). Forse a ragion di ciò appare fondamentale l’utilizzo “mediatore di significato” dell’epiteto “Mistico” . Indubbiamente, l’unità sostanziale che il corpo di Cristo paolino suggerisce, viene resa splendidamente dall’interpretazione agostiniana (poi ripresa da Tommaso d’Aquino) del “Corpus Totus”, per cui Cristo e la Chiesa formano una sola “mistica” persona. Tuttavia la prospettiva paolina sembra ancora più radicale del “Totus” agostiniano, anche se va ricordato a molti interpreti paolini che anche la testa appartiene al corpo, e non è pensabile una indebita separazione fra Cristo-capo, da una parte, e il corpo-Chiesa dall’altra: l’unità del corpo verrebbe pregiudicata e le membra scisse, anziché articolate in Cristo. Secondo l’enciclica Mystici Corporis di Pio XII, considerata anche dal Semeraro. “la Chiesa è un corpo, cioè una realtà visibile, organica, strutturata gerarchicamente, dotata di mezzi di santificazione che sono i sacramenti, formata da determinati membri dai quali non sono esclusi i peccatori”; tuttavia, lo stesso documento, afferma che “la Chiesa non è un corpo in senso fisico o naturale. In essa, infatti, ci sono molte membra, ma ciascuna con personalità propria” . Al di là dell’apparente controsenso ermeneutico derivante da questa doppia sottolineatura teologica, ci pare che l’enciclica di Pio XII rappresenti una tappa irrinunciabile nella comprensione terminologica della Chiesa come Corpo di Cristo, pur che si parta da una retta comprensione della stessa idea di “corpo”. In questo senso può gettare luce ancora una volta la Costituzione Lumen gentium, un documento certamente assai prudente nell’uso di termini che potrebbero prestarsi ad una equivocità di significati. Il testo conciliare, come si è fatto qui, nota e tuttavia mantiene aperta la duplice prospettiva paolina: da un lato il tema della solidarietà fra le varie membra dell’unico corpo e dall’altro quello della funzione “capitale” o di “testa” da parte di Cristo. Forse un “lasciare aperta la strada” è più conveniente che imbastire o ancor peggio imporre delle interpretazioni di significato fondate su illazioni del tutto personali ed individuali.
Non ci addentriamo, qui, entro una riflessione sulla nozione di Chiesa come Tempio dello Spirito. Indubbiamente tale dimensione ecclesiale, che se ne dica, rimane sempre un po’ in secondo ordine di fronte alle altre due precedentemente trattate. Tuttavia ci pare eccessiva e se vogliamo infelice l’accusa di alcuni studiosi, fra cui in particolare L. Bouyer, di una “carenza pneumatologia nel Vaticano II”, che viene ribaltata dalle parole di Giovanni Paolo II: “L’insegnamento di questo Concilio è essenzialmente pneumatologico, permeato com’è della verità sullo Spirito Santo come anima della Chiesa” .
Uno studio specifico sulla pneumatologia ecclesiologia, potrebbe quindi risultare quanto mai produttivo per un ampliamento delle proprie conoscenza ecclesiologiche, con particolare riferimento all’ecclesiologia del Vaticano II.

– Fonte: Francesco Gastone Silletta – La Casa di Miriam Torino –

 

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