L’origine dell’uomo tra scienza e fede – Intervista al biologo Enzo Pennetta
(Dal 1° numero di “CIRCOLA VOCE”, trimestrale d’informazione religiosa)
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“Tutto è stato fatto per mezzo di lui (il Verbo), e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste” (Gv 1,3). Se interpretato con coerenza critica, un qualsiasi testo letterario dev’essere giudicato alla luce della sua interezza espositiva, non soltanto per astrazione finalizzata di alcune sue parti, tanto più se questo testo corrisponde alla Sacra Scrittura. L’attribuzione della dottrina della creazione che, come afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica, “è il fondamento di tutti i progetti salvifici di Dio” (n° 280), alla sola e per alcuni studiosi “fiabesca” narrazione della creazione secondo il racconto genesiaco (Gen 1-2), risulta essere un processo minimale d’interpretazione del Testo Sacro, dal momento che con modalità distinte il tema del Dio creatore è onnipresente nell’economia biblica, con un’accentuazione del tutto singolare, per ovvie ragioni, nel Nuovo Testamento. In questa nostra rubrica, siamo lieti di poter interloquire con un biologo e divulgatore scientifico, il dottor Enzo Pennetta, a riguardo dell’origine dell’uomo, potendo così esplorare il punto di vista scientifico attorno al pensiero cristiano della creazione.
D. Gentile dottor Pennetta, ad introduzione della nostra riflessione vorrei raccontarle un episodio particolare che avvenne il giorno della mia primissima esperienza come professore di religione in un liceo scientifico del torinese, diversi anni or sono. Una ragazza di seconda, peraltro molto educatamente, mi propose la seguente domanda: “Professore, a cosa serve parlare ancora di un Dio creatore quando Darwin ha dimostrato scientificamente che l’uomo derivi dalla scimmia?”. Ricordo che in quel momento pensai alla mia posizione da “ultimo arrivato” nel corpo docenti, un supplente a tempo, per cui, pur intuendo che quella ragazza ereditasse questa sua convinzione dall’insegnamento del mio collega di scienze naturali, che peraltro non conoscevo ancora, evitai un’argomentazione polemica e le dissi soltanto di approfondire con lui la veridicità di questa informazione. Lei, dottor Pennetta, come risponderebbe oggi, da uomo di scienza, ad una domanda di questo genere?
R. L’esperienza scolastica a cui fa riferimento la domanda è capitata anche a me personalmente e ritengo che sia una di quelle situazioni con cui ogni insegnante, prima o poi, sia chiamato a confrontarsi. Quando quella stessa domanda fu rivolta a me per la prima volta, diversi anni or sono, non credo di essermela cavata molto bene; sapevo infatti che fosse un’affermazione errata, ma non trovai le parole giuste per spiegarlo. Oggi, con molta più esperienza sulle spalle, a quella domanda replico che la scienza si occupa di rispondere all’oggettività del “come”, mentre non può dire nulla sulla trascendenza del “perché”. Se quindi la teoria di Darwin spiegasse con precisione “come” sia comparso l’Uomo (cosa che in realtà non fa), non potrebbe mai dire nulla sul “perché” della sua esistenza. Mi spiego meglio. La scienza ci può dire come funzioni il corpo umano, ma non ci dirà mai nulla sul senso dell’esistenza; il motivo sta nel fatto che la scienza non indaga per sua natura i fini ultimi e quindi non renderà mai superflue la filosofia e la religione, perché si occupa di altre cose. Il grande paleontologo S.J. Gould, per indicare tale separazione, coniò il termine ‘magisteri non sovrapposti’; personalmente, credo che questo sia un modo efficace di inquadrare la questione.
D. Rimanendo ancora alla mia esperienza personale, del resto amo parlare di ciò che ho sperimentato in prima persona e in questo, forse, sono un po’ “scientifico” anch’io, posso testimoniare come durante i lunghi anni di frequentazione accademico-pontificia che mi hanno condotto al dottorato abbia conosciuto alcuni professori di elevata formazione scientifica, astronomi, fisici, matematici, divenuti poi sacerdoti e teologi, alcuni dei quali oggi particolarmente conosciuti a livello internazionale. Ebbene, al di là del solito sforzo basilare nell’affermare il principio di verificabilità dei propri enunciati, mi pare evidente che sia nell’ambito teologico, sia in quello della scienze propriamente dette, esista sempre un margine intellettuale puramente personale, legato al punto di vista privato del ricercatore e capace tuttavia di equivocare, in certi casi, un patrimonio comune di conoscenza. Questo in particolar modo mi pare accadere in ordine all’insegnamento teologico e scientifico circa l’origine dell’uomo, dove un secondo fine, intrinseco a determinate proposizioni passate per scientifiche, rischia di confondere, piuttosto che non chiarire, determinati interrogativi del ricercatore. Lei pensa di poter condividere questa mia percezione? E quali effetti socio-culturali, eventualmente, possono scaturire da un’alterazione dell’oggettività sperimentale?
R. L’idea che la scienza sia qualcosa di indifferente alle convinzioni personali degli scienziati, o alle idee dominanti in un determinato periodo storico, è un’ingenuità. Sin dalla prima metà del Novecento il filosofo della scienza T.S. Kuhn ha affrontato il fenomeno dell’origine e dell’affermazione delle teorie scientifiche, giungendo alla conclusione che esse quando hanno successo si consolidino in “paradigmi” e che siano correlate con le convinzioni dell’epoca. In questa dinamica è presente un forte rischio di entrare in un sistema auto-alimentantesi, nel quale i paradigmi scientifici rinforzano quelli socio-culturali e viceversa. Nel caso particolare della teologia, sembra che alle volte emerga una sorta di “complesso d’inferiorità” rispetto alle scienze naturali che spinge ad orientare le proprie affermazioni in un modo quasi compiacente, ma purtroppo questa è solo una conseguenza della mancata separazione tra diversi magisteri, proprio come nel caso che abbiamo prima affrontato del rapporto tra evoluzione ed esistenza di un Creatore. I teologi dovrebbero quindi tenere sempre presente che la scienza si occupa dei fenomeni naturali e di “come” essi avvengano, e che questo non dovrebbe aggiungere o togliere nulla al loro ambito in quanto, come abbiamo visto, si tratta di magisteri non sovrapposti.
D. Da un punto di vista dell’adeguazione disciplinare, l’evoluzionismo possiede un sempre crescente diritto di cittadinanza anche presso gli ambienti teologici, sebbene attraverso forme ed applicazioni ermeneutiche non sempre omogenee e sistematiche e talvolta molto distanti dall’originario orientamento darwiniano. In questa prospettiva, il gesuita e paleontologo Theilard de Chardin (1881-1955), profondo sostenitore della teoria evoluzionista, può considerarsi il pioniere di un processo, mi perdoni il gioco di parole, “evolutivo” in seno alla teologia della creazione cattolica. Joseph Ratzinger (Benedetto XVI), per esempio, non disdegnò un’ampia serie di citazioni del gesuita francese in seno al suo discorso sull’evoluzione contenuto nella sua famosa “Introduzione al Cristianesimo”, manifestando anche successivamente, come prefetto della Congregazione per la Fede, una certa attrazione rispetto ad alcuni enunciati di questo autore. Lo stesso importante documento della Commissione Teologica Internazionale, intitolato “Comunione e servizio” (2004), precisa al n° 65 (cap. 3°): “I risultati convergenti di numerosi studi nelle scienze fisiche e biologiche inducono sempre più a ricorrere a una qualche teoria dell’evoluzione per spiegare lo sviluppo e la diversificazione della vita sulla Terra, mentre ci sono ancora divergenze di opinione in merito ai tempi e ai meccanismi dell’evoluzione”. Pur tuttavia, e sono curioso di conoscere il parere di uno scienziato, mi pare che il movimento teologico verso un’accoglienza/integrazione, ormai ritenuta come dato indiscutibile, della teoria dell’evoluzione in seno alla teologia della creazione, manchi di una coerente epistemologia scientifica che, appunto, stabilisca un parametro indefettibile rispetto a ciò che si intende con il termine “evoluzione”, finendo per elaborare delle teorie non sufficientemente sostenute da una strutturazione coerente e trasbordanti talvolta in frontiere filosofiche o metafisiche. Le domando, dunque, quale genere di “imprescindibilità”, secondo lei, possieda la teoria dell’evoluzione in seno ad una credibile teologia della creazione, e soprattutto alla luce di quale concetto di evoluzione, data la diversificazione e l’uso non sempre identico di questo termine.
R. Parto dalle ultime questioni sollevate dalla domanda e cioè su cosa si intenda per “teoria dell’evoluzione”. Siamo qui di fronte ad un argomento centrale e al tempo stesso lasciato quasi sempre da parte, mi riferisco ad un’interpretazione vaga e in genere errata del termine ‘evoluzione’ che finisce per nascondere dietro una coltre di confusione i limiti della teoria scientifica. Faccio anch’io riferimento ad un’esperienza personale. Ricordo la prima volta che ascoltai il paleontologo Roberto Fondi (che fu uno dei più lucidi critici della teoria darwiniana negli anni ’80): quel giorno egli iniziò la sua conferenza proprio chiarendo la distinzione tra evoluzione e darwinismo. Infatti, per evoluzione si deve intendere il “fatto”, dimostrato dal ritrovamento dei reperti fossili, che nel tempo sulla Terra si sono succeduti organismi di diverso tipo, mentre la teoria darwiniana è una “spiegazione” che è stata data al fatto dell’evoluzione. Se questa distinzione venisse fatta chiaramente a partire dall’insegnamento scolastico, si comprenderebbe chiaramente che si può benissimo accettare l’evoluzione e al tempo stesso rifiutare la teoria di Darwin senza che in questo vi sia nessuna contraddizione. Adesso possiamo tornare a parlare del rapporto con la teologia. Ebbene, a mio parere il primo testo che parla di uno sviluppo graduale dell’Universo a partire dalla materia inorganica per finire con la comparsa dell’Uomo, è proprio il libro della Genesi: perché allora dovrebbe esserci contrasto tra evoluzione (che ricordiamo è la successione di diverse forme di vita nel tempo) e Genesi? Una volta chiarito che l’evoluzione in sé non costituisca un problema per la religione, si capisce che il falso conflitto tra evoluzione e Bibbia faccia comodo solo a chi vuole nascondere i punti deboli della teoria darwiniana dietro lo schermo di un’opposizione religiosa di comodo, una contrapposizione che lascerà intendere che le critiche al darwinismo sono legate a preconcetti di natura religiosa e non a validi motivi scientifici. Ma come detto in precedenza riguardo ai magisteri non sovrapposti, quando la scienza avrà trovato una spiegazione soddisfacente dell’evoluzione, questa spiegazione, qualunque essa sia, non potrà in alcun modo portare contributi ad una visione atea del mondo.
D. In uno dei suoi scritti più discussi, proprio perché attinenti il tema dell’origine dell’uomo, la mistica Maria Valtorta metteva in bocca a Gesù le seguenti parole: “Se l’uomo è venuto dalla scimmia, come mai ora l’uomo, anche con innesti e ripugnanti incroci, non torna scimmia? Sareste capaci di tentare anche questi orrori se sapeste che ciò potesse dare sanzione approvativa alla vostra teoria, ma non lo fate perché sapete che non riuscireste a fare di un uomo una scimmia. Ne fareste un brutto figlio d’uomo, un degenerato, un delinquente forse, ma mai una vera scimmia. Non lo tentate perché sapete in anticipo che fareste una pessima riuscita e la vostra reputazione ne uscirebbe rovinata”. Tacciata di follia e fantascienza da alcuni scienziati, talvolta anche dentro gli ambienti accademico-pontifici, la Valtorta ha comunque messo in crisi un certo orientamento evolutivo ormai esteso nello stesso contesto del pensiero teologico contemporaneo dominante. Una crisi generata dal fatto che la Valtorta non è stata né una teologa né una scienziata, ma una donna per moltissimi anni bloccata in un letto, senza alcun ordine di cultura particolare. Lei, da scienziato, come interpreta le parole di questa mistica, in particolare la sua famosa conclusione: “È stolto pensare che Dio abbia creato, volendo darsi un Creato, cose informi, attendendo di essere da esse glorificato quando le singole creature e tutte le creature, avessero raggiunto, con successive evoluzioni, la perfezione della loro natura perché fossero atte al fine naturale o soprannaturale per il quale sono state create”?
R. Non conoscevo questo scritto di Maria Valtorta, e devo dire che mi ha sorpreso per i suoi risvolti tecnici estremamente moderni. L’idea di ripercorrere a ritroso l’evoluzione per mostrarne le fasi è infatti realmente stata formulata. Come è noto, secondo la ricostruzione degli scienziati evoluzionisti, gli uccelli sarebbero i discendenti dei dinosauri; ebbene, il paleontologo Jack Horner ha proposto proprio di riottenere un dinosauro a partire dal pollo facendo dei cambiamenti a ritroso nel DNA, il che, fatte le dovute differenze, equivale alla proposta di ricavare un ominide, o qualcosa di simile ad una scimmia, a partire dall’uomo. Se l’esperimento di Horner fallirà, sarà un fallimento della teoria darwiniana, proprio come affermato nello scritto della Valtorta. Ma secondo i dati forniti dai reperti fossili i cambiamenti che portano alla comparsa di una nuova specie sono bruschi, e sarà davvero difficile intervenire a ritroso per ottenere il “salto” inverso. Noi siamo qui ad aspettare, e se l’esperimento di Horner dovesse avere un esito negativo, sarebbe giusto che la cosa non passasse inosservata. Riguardo invece alla seconda frase di Maria Valtorta che è stata riportata nella domanda, essa può essere interpretata in modo teologicamente compatibile con l’evoluzione, intesa come successione di specie diverse nel tempo. Infatti, secondo una corretta visione evoluzionistica, non esistono creature informi o che non siano in sé perfette, ad esempio i dinosauri erano perfetti, così come lo erano i mammut o le tigri dai denti a sciabola. Queste creature si sono succedute nel tempo ma non erano imperfette, così allo stesso modo le stesse generazioni umane si sono succedute nel tempo, ma questo non vuol dire che i nostri antenati fossero ‘informi’ o più ‘imperfetti’ di noi.
D. Ritornando al discorso puramente razionale, in alcuni ambienti cattolici alcuni studiosi, come ad esempio il professor Paul Erbrich (1928-2009), si lamentavano del rifiuto di alcuni biologi ad ammettere l’istanza evoluzionista senza al contempo identificarla con il meccanismo darwiniano, confutando l’idea che l’origine dell’evoluzione possa essere identificata con “il caso”. Lei in che prospettiva si pone rispetto a questa presa di posizione?
R. Confermando quanto sinora ho detto, mi trovo pienamente d’accordo con la posizione sostenuta da Paul Erbrich: l’evoluzione è un fatto, la teoria darwiniana è un tentativo di spiegare quel fatto. La distinzione tra le due cose è così evidente che il rifiuto di accoglierla appare pretestuoso. Far passare per sinonimi i due termini “evoluzione” e “teoria di Darwin”, giova infatti a chi vuole evitare il confronto sui punti deboli della teoria di Darwin facendo passare gli oppositori per gente irragionevole che nega il fatto che siano esistiti i dinosauri. Ma una volta capito il trucco diventa facile neutralizzarlo. E concordo con la critica al ‘caso e selezione’ come motore dell’evoluzione, esistono dei limiti legati alla stessa età dell’universo che lo escludono. In poche parole, il nostro universo è troppo ‘giovane’ per poter pensare che il caso e la selezione abbiano avuto modo di produrre il fenomeno ‘vita’ come lo conosciamo.
D. Quale genere di prospettiva finalistica è contenuta nell’architettura darwiniana dell’evoluzione? Si parla infatti molto di origine, ma riguardo al fine non sembra riscontrarsi la stessa concentrazione speculativa.
R. La teoria di Darwin, in quanto appartenente all’ambito scientifico, non indica alcun fine nell’evoluzione, ma al riguardo è bene ribadire alcune cose. Come ho detto prima, la scienza non si occupa dei “perché” ma dei “come”, quindi una teoria scientifica come quella di Darwin non può dire nulla riguardo ai fini. Ma qui gli scienziati commettono spesso un errore, confondendo l’incapacità di dimostrare un fine con l’inesistenza del fine stesso. Dire infatti che non posso dimostrare l’esistenza di un fine, non significa che quel fine non esista.
D. Le pongo ancora un’ultima domanda dal carattere conclusivo, ringraziandola per la sua gentile disponibilità. Indipendentemente da ogni soggettivismo o punto di vista finalizzato, mi piacerebbe conoscere attraverso di lei quale concreto ordine di conoscenza scientifica esista oggi in riferimento all’origine dell’uomo.
R. La realtà è che sui meccanismi evolutivi in generale e, a maggior ragione, su quel fenomeno unico tra i viventi che è l’Uomo, sappiamo veramente poco. E a dirlo sono alcune delle menti migliori della ricerca internazionale; infatti, proprio pochi mesi fa, grandi nomi come Noam Chomsky, Ian Tattersall, Richard Lewontin e altri, hanno pubblicato uno studio congiunto nel quale sottolineano che la comparsa di quella capacità unica degli esseri umani che è il linguaggio non abbia ancora una convincente spiegazione scientifica. Una dichiarazione autorevole che, senza dirlo mai esplicitamente, mette in discussione tutta la ricostruzione della comparsa dell’Uomo e la stessa teoria darwiniana. Ma voglio concludere con una dichiarazione di fiducia nella scienza, nel fatto che un giorno capiremo come è realmente avvenuta la comparsa dell’Uomo, e che questa scoperta non potrà mai essere incompatibile con una visione religiosa.
Vi ringrazio per avermi dato l’opportunità di parlare di questi importanti e interessantissimi argomenti, ma soprattutto per la possibilità di indicare ai vostri lettori quei luoghi comuni che falsano un corretto dibattito sull’evoluzione.
Fonte: “Circola Voce”, di Francesco Gastone Silletta – n° 1 Anno 1 – Ottobre 2014 – Corso Francia, 201 – 10139 Torino – Tel. 3405892741 – francesco.silletta@libero.it P.IVA 11193280010