4. “Questa è osso delle mie ossa, carne della mia carne” (Gen 2,23): il corpo come rivelatore dell’uomo
La solitudine originaria dell’uomo ‘adam, come si è visto, è stata la premessa per la comprensione antropologica dell’uomo stesso; al contempo, la creazione della donna “da una costola dell’uomo” segna la comprensione sessuale dell’uomo maschio-femmina. Il grido di esultanza dell’uomo, infatti, che da qui viene definitivamente chiamato “Adamo”, di fronte alla visione della donna, attesta sia linguisticamente che metaforicamente la perfezione “tipica” che la donna rappresenta per lui, cosciente di ciò che essa è rispetto a se stesso.
Anche in questo caso occorre soffermarsi dettagliatamente sulla terminologia ebraica. Anzitutto vi è un dato evidente: la solitudine originaria è definitivamente superata. Il grido di Adamo, infatti, è un vero e proprio canto nuziale, il primo, evidentemente, della storia della salvezza[1], proponendosi effettivamente come base empirica per la comprensione della sacramentalità del matrimonio. Tale grido, tuttavia, è consequenziale ad una fondamentale scoperta di Adamo stesso, ovvero la sua somiglianza ontologica con la donna-Eva, la comunione di umanità che essi hanno l’uno nei confronti dell’altra. Il rivelatore di questa comprensione antropologico-sessuale è proprio il corpo. È il corpo, infatti, ad attuare quell’ “unità dei due” che sottende, di fatto, la comunione incarnata delle persone; non a caso, l’espressione di giubilo di Adamo è centrata proprio sulla similitudine corporale della donna: “È carne della mia carne, osso delle mie ossa!” (Gen 2,23). Adamo si scopre arricchito nel suo stesso essere mediante la coscienza della corporeità di Eva, la quale gli rivela come sia consustanziale a lui, nell’unità somatica e spirituale.
È importante comprendere il valore di questo primo incontro dei due sessi nella storia biblica attraverso la concezione ebraica del corpo. Per gli ebrei, infatti, il corpo è una funzione dell’anima, non è un essere diverso dall’anima. In questo la cultura filosofica ebraica è peculiare e caratteristica rispetto non solo alla filosofia greca[2], ma anche alle principali religioni e filosofie orientali. Non vi è alcun tipo di dualismo-antitesi fra anima e corpo, anzi, gli stessi termini indicanti l’una e l’altro, rispettivamente nefesh e basar, hanno una valenza semantica di carattere proprio che sostanzialmente tiene una certa distanza dai termini greci corrispettivi di psyché e sarx e da quelli latini di anima e caro. Secondo la filosofia ebraica, non vi è alcuna preesistenza dell’anima rispetto al corpo, in quanto al pari di questo l’anima è stata creata e non ha una natura consustanziale alla divinità, pertanto dopo la morte non ritorna presso la divinità poiché da essa non è mai uscita. Inoltre, l’anima non viene vista in alcun modo come superiore al corpo, né viene interpretata come disgrazia la sua “incarnazione” corporea. La stessa idea di corpo è concepita molto semplicemente alla maniera di un’anima tangibile. In questo senso va precisato come il termine ebraico basar non ha alcun valore differenziale nell’indicare il corpo-carne come distinto dall’anima-spirito; esso indica piuttosto l’unità fondamentale dell’uomo nella sua totalità psicosomatica. In senso biblico, pertanto, la carne indica l’uomo anima e corpo.
Alla luce di queste riflessioni si comprende il valore peculiare dell’espressione di Adamo: “Questa è carne della mia carne” e che lo stesso Giovanni Paolo II riprende costantemente nelle sue riflessioni sulla Teologia del corpo, utilizzandola anche come modello antropologico per la comprensione dell’unità matrimoniale. Tale grido di Adamo esprime tutta l’immensa portata della propria identificazione nell’essere umano mediante la scoperta dell’altro sesso. La solitudine originaria, infatti, aveva slegato l’uomo dalla propria umanità, nel senso che egli non poteva ancora perfettamente identificarsi in essa. Ora, la creazione della donna permette il “ritorno” di quell’uomo originario nel mondo degli esseri viventi, al quale egli può riconoscere pienamente di appartenere ed al contempo di distinguersi proprio a ragione del suo essere umano, maschio-femmina: “Dio non creò l’uomo lasciandolo solo; fin da principio “uomo e donna li creò” e la loro unione costituisce la prima forma di comunione di persone. L’uomo, infatti, per sua intima natura è un essere sociale, e senza i rapporti con gli altri non può vivere né esplicare le sue doti”[3].
[1] Cfr. SEMEN Y., La sessualità secondo Giovanni Paolo II, op. cit., p. 83
[2] Non tanto quella aristotelica, che verrà più tardi ripresa da S. Tommaso, quanto piuttosto quella di origine platonica che interpretava l’anima come ‘antitetica’ rispetto al corpo e destinata a liberarsi da esso dopo la morte.
[3] Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 12.