Peccato e dolore in Giobbe e Gesù
Gesù ci ha insegnato a superare Giobbe, che pure in alcuni momenti lo prefigura, relativamente al senso di peccato dinanzi a Dio. Gesù non inveisce mai contro il Padre, ma depone ogni cosa alla sua giustizia. E quando dice: “Perché mi hai abbandonato?”, si riferisce alla domanda dell’Uomo, che egli ha assunto, dinanzi a tutto il mistero del peccato che lo sommerge. E tuttavia non vi è accusa contro Dio, ma speranza. Giobbe, invece, nella prima parte della sua afflizione, inveisce contro Dio, “colpevole” di “non cancellare il suo peccato e di non dimenticare la sua iniquità” (cf. 7,21), e di non svelargli nemmeno quale sia, concretamente, la natura di quel peccato, che lo stesso Giobbe non conosce davanti a Dio (cf. 7,20). Giobbe, condizionato dall’amico Elifaz, percepisce la sua condizione di malato e moribondo come un volontario castigo di Dio, dovuto a qualche suo peccato che tuttavia sfugge alla sua coscienza. Ma Gesù col Salmista muta interpretazione: “Il mio peccato mi è sempre dinanzi”. Vi è quindi una netta distinzione – pur nella similitudine – fra Giobbe e Gesù dinanzi al dolore e al peccato. Giobbe si domanda perché mai – e qui è lui a citare il Salmista – Dio ancora si curi di lui (cf. Salmo 8), nel senso del perché ancora lo tenga in vita e non lo faccia piuttosto morire. Gesù ha invece una luce verso la vita, nonostante la condanna del dolore, testimoniata dalla consegna volontaria del suo spirito e simboleggiata dal grido: “Ho sete!”. Giobbe non ha più sete della vita, e anzi inveisce contro Dio per la sua misteriosa condotta nei suoi riguardi. E dinanzi al possibile peccato, ne prende le distanze e chiede che sia Dio a svelarglielo – sentendosi quindi sostanzialmente innocente. All’opposto, Gesù ne assume totalmente il peso, non si distanzia da esso a livello di responsabilità, poiché sebbene totalmente innocente, tutto il giogo del peccato è su di lui, e di questo non accusa il Padre, ma lo invoca nella sua invincibile speranza. Amen