Dal legno d’acacia al grembo di Maria (1)
(La Casa di Miriam Torino – Studi Biblici)
Osservazioni preliminari
Il nostro studio precedente si è soffermato sull’analisi di alcune istanze fondamentali dell’Antica Economia di salvezza, quali la vocazione di Mosè, la rivelazione del Nome divino, l’economia davidica e il ministero profetico di Elia. Se certamente si tratta di una visuale molto ristretta del patrimonio veterotestamentario nella sua interezza, essa è da noi ritenuta sufficiente perché si possa sostenere l’Antica Rivelazione non soltanto in termini preparativi, cosa peraltro insindacabile, ma anche essa stessa, di per sé, quale deposito di rivelazione filiale, al punto che anche se venisse letta indipendentemente dalla Nuova Economia, l’Antica risulterebbe coerente con se stessa, come del resto avviene d’inverso per il Nuovo Testamento.
Questa interpretazione non equivale affatto, a nostro avviso, ad una separazione delle due Economie di salvezza, le quali risultano inscindibili nella loro unicità di significato storico-salvifico; neppure si tratta di una rivendicazione d’autonomia dei due Testamenti, come se essi potessero sussistere l’uno indipendentemente dall’altro. La nostra osservazione interpella piuttosto la dimensione filiale dell’intero patrimonio biblico, la quale è tutta se stessa, nel proprio rivelarsi, sia nell’Antica, sia nella Nuova Economia: l’oggetto biblico di rivelazione, infatti, è comunque il Figlio di Dio, e questo in entrambi i Testamenti, ma ciò che ancor più va sottolineato è l’identità di questo oggetto filiale con il soggetto unico e teologico dell’uno e dell’altro Testamento, ossia di nuovo il Figlio di Dio.
L’identità fra soggetto ed oggetto dei due Testamenti non implica che sia identica pure la modalità di rivelazione di questa stessa identità; se, infatti, dal punto di vista sostanziale, non viene scalfita l’identità fra il soggetto e l’oggetto della rivelazione divina nei due Testamenti, dal punto di vista formale, ossia di ciò che Dio dice di sè, della propria relazione paterno-filiale con se stesso, l’identità fra soggetto e oggetto deve essere compresa mediante una diversa argomentazione teologica. Si tratta, infatti, di impostare l’orizzonte teologico di partenza dalla sostanza della rivelazione di Dio nella storia della salvezza alla sua forma, analizzando allora ciò che, alla luce del proprio rivelarsi formale, Dio è.
Ora, nell’Antica Economia, come abbiamo visto, Dio rivela alcuni fondamentali elementi paterno-filiali della propria natura divina. In questa prospettiva, ci siamo soffermati su alcune figure particolarmente significative, affinché attraverso la loro personale relazione filiale con il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, potesse essere compresa una relazione filiale modellare, a partire dalla quale Dio stesso immagina la storia dell’uomo veterostestamentario e la conduce verso il termine stesso di questa sua Immagine, il Figlio suo (cfr. Col 1,15).
Nella Nuova Economia, presso la quale ci inoltriamo soltanto adesso, è invece diversa non certo la sostanza, che in Dio è sempre identica, bensì piuttosto la maniera di rivelare questa immagine filiale, ossia la sua singolare forma di rivelazione, il suo dirsi storico: non più il Logos soltanto, bensì addirittura il Logos incarnato.
Si tratta di una novità salvifica assolutamente unica in qualsivoglia prospettiva fenomenologica del religioso, che noi definiamo tecnicamente come migrazione formale del Logos filiale. Qui l’Antico Testamento può soltanto accompagnare, annunciandola, una così eccedente informazione linguistica divina, la cui forma procede dal Logos presso Dio al Logos fatto uomo. Non per questo, ad ogni modo, l’Antica Economia viene minimizzata nella sua linguistica filiale, la quale è, e non può che essere, in ogni tempo la Parola, il Figlio di Dio che interloquisce con l’uomo storico-salvifico al fine di redimerlo e salvarlo.
La risultante di tutte queste osservazioni conduce ad un bivio fondamentale il prosieguo della nostra trattazione, sia guardando indietro che in avanti. Da un lato, infatti, viene resa giustizia ad un’Antica Economia fondata su una radice filiale, poiché ogni locuzione del discorso di Dio all’uomo, proferita nell’Antico Testamento, risulta linguisticamente dipendente dall’unica Parola di Dio, il suo Figlio unigenito; dall’altro lato viene spianata la strada ad una nuova rivelazione nell’Economia di salvezza, la cui novità non sta tanto nell’oggetto del discorso divino, che è sempre identico al suo soggetto, il Figlio diletto, bensì nella linguistica stessa (forma di rivelazione), non più soltanto detta, bensì resa umana dal mistero dell’Incarnazione filiale.
Incarnandosi, infatti, la Parola non muta il proprio contenuto ontologico, bensì tuttavia la propria forma linguistica. Mutando la forma, però, viene destabilizzato anche l’ordine di conoscenza teologica acquisito dall’uomo sino ad un istante prima di questa mutazione, finendo per degenerare in una doppia possibile risposta concreta: o il rifiuto di questa Incarnazione, o la sua accettazione, concepita però in termini dialettici rispetto alla precedente comunicazione del Logos.
A nostro modo di vedere, quindi, pur trattandosi di un unico soggetto verbale e di un unico oggetto verbalizzato, tra l’Antico e il Nuovo Testamento rimarrebbe comunque uno iato incolmabile di distanza teologica, se il piano linguistico di Dio, che è il suo stesso modo di informare l’uomo circa Se stesso e l’orizzonte salvifico che lo attende, non depurasse l’intelligenza umana dal suo fattore di deficienza, espresso dalla dicotomia intellettuale che viene concepita nella comprensione dei due Testamenti. Questa depurazione, ciò nonostante, non risulta compiuta soltanto a motivo di un farsi uomo del Logos, e quindi, di riflesso, di una divinizzazione dell’intelligenza umana, poiché pur divinizzata essa porterebbe e di fatto ancora porta con sè le tracce dell’umana precedente comprensione: l’uomo non può essere divinizzato, quindi, al di là del proprio rimanere comunque e sempre un uomo.
Pur assumendo, allora, ogni dimensione dell’umano ed attirandola alla propria sorgente divina, che è una sorgente paterno-filiale, il nuovo linguaggio neotestamentario rimarrebbe in se stesso inefficace, se Dio non fosse capace non soltanto di farsi uomo nella carne, bensì addirittura di fare di se stesso, Dio, una dimora per l’uomo, con tutto il deposito di intelletto e volontà con cui tale dimora viene arredata. Attraverso questo processo, infatti, il Logos divino, mediante il quale nei secoli precedenti Dio ha parlato all’uomo, viene ora non soltanto reso identico all’uomo quanto alla natura carnale, seppure non secondo l’ordine teologico della colpa adamitica, bensì, ancor di più, viene reso identico all’uomo nella propria relazione di filiazione con Dio stesso, poiché il Logos di Dio che si fa carne è un Figlio che si fa necessariamente Figlio umano.
Senza l’assunzione di una figliolanza umana, la filiazione divina non potrebbe liberare il proprio figlio-uomo dal peso prodotto dalla propria disobbedienza filiale. L’incarnazione del Logos è dunque, principalmente, l’assunzione di una filiazione umana da parte del Figlio di Dio (migrazione formale del Logos filiale), capace di rendere depurata ogni terrena filiazione dalla propria deficienza intellettuale rispetto al Padre divino.
Ora si apre, dunque, un ulteriore mistero nel già abbondante mistero del nuovo linguaggio salvifico neotestamentario: viene infatti resa necessaria, per la realizzazione di questo processo storico-salvifico, l’istituzione di una carne umana capace di maternizzare ciò che volutamente il Figlio di Dio ha assunto in termini filiali, ossia è necessaria una Madre per il Figlio di Dio, la quale, proprio per il ragionamento appena fatto, diviene l’assoluta Madre di ogni filiazione, e dunque l’imprescindibile strumento di cooperazione salvifica al piano di Dio stesso.
Questa cooperazione materna umana alla paternità divina, sia nell’ordine dell’Incarnazione, sia tanto più in quello della Redenzione, è l’insindacabile singolarità del Cristianesimo rispetto ad ogni epistemologia religiosa: Dio, da se stesso, a motivo della libertà propria della creatura umana da Lui istituita, non può reintegrare la filiazione umana alla propria paternità divina al di fuori di un processo di rivelazione formale nuovo, l’incarnazione del Logos, la quale richiede necessariamente il concorso di una maternità umana che instauri una relazione materno-filiale dal valore, a questo punto, storico-salvifico, poiché appartenente all’ordine della mediazione e della corredenzione.
Tutto ciò esprime il valore unico, non solo relativamente all’Economia biblica, bensì all’intero universo dell’Economia religiosa, della Maternità di Maria: senza la Madre, in ultima istanza (come avevamo anticipato sopra), non c’é salvezza, poiché da un lato l’azione redentrice del Logos, attraverso la sua nuova forma linguistica dell’incarnazione, è inesorabilmente preclusa a livello umano, ma molto di più, ancora, perché pur potendo sussistere, la filiazione del Logos incarnato non avrebbe alcun valore salvifico qualora prescindesse dalla relazione filiale con la Madre.
Ci pare quanto mai necessario, dunque, approfondire teologicamente queste nostre osservazioni preliminari, attraverso un’ampia analisi della relazione materno-filiale venutasi ad instaurare, per volere divino, dal momento della nuova rivelazione formale del Logos, l’incarnazione umana del Figlio di Dio. Un evento salvifico che ancora una volta Dio stesso, nel suo linguaggio filiale, ha istituito già nell’Antica Economia, seppure non attraverso il suo compimento storico, bensì attraverso un processo da noi definito come migratorio.
Ad ogni modo, è evidente come la figura chiave di Maria di Nazareth sia stata abbondantemente detta, secondo l’antica forma del Logos, lungo l’intera Economia Antica, in modo particolare attraverso la rivelazione di una maternità divina che, nella pienezza dei tempi, viene ad istituirsi storicamente nella persona di Maria.
Fonte: Francesco Gastone Silletta – La Casa di Miriam Torino (Studi Biblici)