Filiazione, monarchia e volere divino
Nella storia d’Israele, in particolar modo nel contesto storico immediatamente precedente l’istituzione monarchica, il Testo Sacro rivela alcune singolari deflagrazioni nella relazione fra padre e figlio, a tal punto estese da generare un complesso di effetti aventi quale referente l’intero popolo israelita. In particolare, relativamente a questo frangente storico d’Israele, vengono proposti dal racconto biblico due esempi eloquenti di difficoltà di rapporto paterno-filiale, capaci tuttavia di oltrepassare l’ambiente sorgivo intrafamiliare e di produrre dei profondi cambiamenti nella struttura politica e religiosa dell’intero popolo d’Israele. Il primo esempio è rappresentato dal comportamento osceno dei figli di Eli, Cofni e Pincas. Essi abusano del loro ministero sacerdotale, oltraggiando pubblicamente la stessa legge di Dio. In questo loro comportamento essi rievocano alla memoria i figli di Aronne, Nadab e Abiu, i quali morirono per aver violato la legge di Jahvé. La loro condotta destabilizza l’ambiente religioso dell’antico credo jahvista, rendendolo orfano di un riferimento sacerdotale mediante il ministero del quale onorare e rendere gloria al Signore. Proprio in questo contesto di oscenità religiosa, la figura di Samuele viene pedagogicamente formata da Dio stesso. Il secondo esempio, che esattamente come il precedente potremmo qualificare come “anti-filiale”, riguarda invece la condotta dei figli dello stesso Samuele, divenuto ormai vecchio, il comportamento del quale sembra introdurre una sorta di controsenso teologico rispetto alle precedenti osservazioni che lo stesso racconto biblico aveva precedente rivolto nei suoi riguardi. Si noti, per esempio, il senso dispregiativo con cui gli Israeliti si rivolgono a Samuele etichettandolo come “vecchio” nel racconto di 1Sam 8,4-5:
“Si radunarono allora tutti gli anziani d’Israele e andarono da Samuele a Rama. Gli dissero: Tu ormai sei vecchio e i tuoi figli non ricalcano le tue orme. Ora stabilisci per noi un re che ci governi, come avviene per tutti i popoli”.
Carlo Maria Martini definisce l’uso di questo termine, “vecchio”, rivolto a Samuele, come una parola durissima[1], e propriamente lo è. Questo termine, infatti, offende Samuele annullandone le capacità e le competenze in ambito religioso e sociale, ritenute ormai indolenzite dal peso degli anni, ma soprattutto l’offesa riguarda il rapporto fra Samuele e la filiazione divina. Samuele, infatti, è stato e rimane il testimone del Logos, che è il Figlio di Dio, e questo a prescindere dall’esempio pubblico offerto dai suoi figli. Il popolo, in realtà, strumentalizza la condotta filiale di questi ultimi per giustificare una pretesa ormai antica, peraltro non supportata dal consenso di tutta la popolazione, che già al tempo di Gedeone, per ragioni socio-politiche, era stata acclamata con vigore: l’istituzione monarchica. Come lo stesso Samuele reclama, però, essa rappresenta un palese rifiuto della filiazione divina quale “modello di regno” cui sottomettersi. A questo riguardo risultano quanto mai significative le parole stesse di Dio, riportate in 1Sam 8,7:
“Il Signore rispose a Samuele: Ascolta pure la voce del popolo per quanto ti ha detto, perché costoro non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di essi”.
Al di là delle diatribe esegetiche circa la paternità letteraria “anti-monarchica” di questo brano, da contrapporre ad un orientamento “filo-monarchico” presente in altri brani del medesimo contesto letterario (come ad esempio il racconto della richiesta del re in 1Sam 8,4-5), sembra evidente un dato teologico: una monarchia, laddove il popolo la invoca, è in realtà già esistente, come afferma lo stesso Samuele congedandosi davanti a Saul in 1Sam 12b-14:
“(Mi avete detto): No, vogliamo che un re regni sopra di noi, mentre il Signore vostro Dio è vostro re. Ora eccovi il re che avete scelto e che avete chiesto. Vedete che il Signore ha costituito un re sopra di voi”.
Non si spiegherebbe altrimenti, infatti, l’assunzione soggettiva da parte di Jahvé dell’offesa che Samuele interpreta come propria: “Costoro non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di essi”. Il rifiuto, quindi, appartiene proprio all’ordine della monarchia divina. Non avrebbe senso, infatti, parlare di un generico rifiuto di Jahvé da parte degli Israeliti, poiché non troverebbe referenza di significato con la richiesta dell’istituzione monarchica: il rifiuto, cioè, appartiene proprio all’ordine della monarchia di Dio, stabilendo così il desiderio israelitico di passare da una monarchia ad un’altra.
Ora, il regno che lo stesso Jahvé, in 1Sam 8,7, sostiene che gli Israeliti abbiano rifiutato, offendendolo, è proprio un regno “filiale”. Il Figlio di Dio è colui che, essendo Logos di Dio, ha la sovranità regale sull’uomo, il quale è appunto proveniente per essenza da questo Logos. La regalità del Figlio, quindi, appartiene in primo luogo alla creazione stessa. Inoltre, l’uomo vive, conosce e si sviluppa dentro una propria esistenza proprio perché modellato sull’esistenza filiale di Dio, “immaginato” in Lui: il linguaggio di Dio (Logos) è Colui che comunica l’esistenza umana. Il Regno, a ragion veduta, è lo stesso luogo esistenziale in cui l’uomo vive, la ragione stessa della sua esistenza, la quale è possibile soltanto in virtù della sovranità linguistica che il Figlio di Dio ha rispetto ad essa. Ecco spiegata, quindi, la monarchia filiale che Dio esercita sull’uomo: il suo Logos, infatti, è il Re dell’umano non per un’elezione effettuata dall’uomo stesso, bensì per il fatto stesso che l’umano esista. La rivendicazione di una nuova monarchia, quindi, certamente offende, perché la altera, questa essenziale signoria filiale.
A riguardo, Martin Noth si è posto questo interrogativo: “Era lecito a Israele essere un popolo come gli altri, insediare un re secondo il modello di monarchie straniere e soprattutto, anche se lo richiedeva la sua difficile situazione, avviarsi a diventare una potenza politica?”[2]. Di fatto lo stesso Noth ha rilevato come, nonostante la posterità della redazione deuteronomistica, chiaramente riluttante verso l’istituzione monarchica, anche la redazione primitiva che invece pareva ad essa favorevole era strutturata su un sostegno fallace, probabilmente idealizzato dai primi quanto effimeri successi di Saul contro gli Ammoniti e i Filistei. Il comportamento successivo di Samuele, in realtà, attesta come realmente l’istituzione monarchica costituisse un’offesa non soltanto alla sacralità della tradizione anfizionica, ma molto più teologicamente alla stessa regalità di Jahvé, come lo stesso Samuele afferma chiaramente in 1Sam 12,17:
“Non è forse questo il tempo della mietitura del grano? Ma io griderò al Signore ed Egli manderà tuoni e pioggia. Così vi persuaderete e constaterete che grande è il peccato che avete fatto davanti al Signore chiedendo un re per voi”.
L’unica maniera perché quest’offesa venga rinsaldata, più che abbandonare l’uomo alle proprie scelte “concedendogli” oggettivamente un re, è per Dio stesso quella di incarnarsi storicamente nella figura monarchica auspicata, passando quindi dalla propria Monarchia trascendente ed eterna a quella storico-salvifica, capace di ristabilire la stessa storia della salvezza all’ordine Monarchico primordiale. In questo senso, l’incarnazione del Figlio di Dio sarà proprio il compimento di questo nuovo passaggio, ma questa volta salvifico, da una monarchia ad un’altra; questo processo subisce tuttavia delle profonde scosse antitetiche, cioè delle opposizioni che noi definiamo, ancora una volta, come anti-filiali.
Una di queste è, appunto, la stessa richiesta regale da parte Israelitica. Si noti, infatti, che Israele non soltanto domanda un re, “ma il popolo volle un re a tutti i costi” [3], per cui, riportando le parole durissime di sant’Agostino a riguardo, affermiamo che “il popolo pretese dal Signore di avere un re e gli fu dato Saul, nelle cui mani essi furono, per così dire, consegnati: così essi con le opere e le parole chiamarono la morte, raffigurata nello stesso Saul” [4].
Pur apparentemente sottomettendosi alla figura postagli da Dio quale mediatore, cioè Samuele, il popolo lo pone in un vincolo di aut-aut, per poter essere “come le altre nazioni”[5]. A riguardo, infatti, un autore scrive che “nell’oriente di allora, (cioè le cosiddette altre nazioni), il re esercitava il potere divino. In quanto tale, egli possiede, per adozione, una specie di parentela divina; è il portavoce e il vicario del suo dio: sacerdote per eccellenza e capo dei sacerdoti; depositario e garante del diritto divino; la sua intronizzazione e incoronazione fatte nella cornice del tempio si ritengono sanzionate da una investitura divina” [6]. Ciò nonostante, la richiesta di essere “come le altre nazioni” da parte di Israele va intesa come un desiderio di similitudine politica e non propriamente religiosa. Infatti, “Israele non ha mai concepito la figliolanza divina del re in senso mitologico, come avveniva in Egitto, cioè come se il re fosse stato generato fisicamente dalla divinità, ma nel senso di un atto giuridico in virtù del quale il re era chiamato ad un rapporto particolarissimo con Jahvé” [7].
Una comprensione di questa concezione della regalità deriva proprio dalla lettura dei cosiddetti “salmi regali” (Salmi 2; 18; 20; 21; 45; 72; 89; 101; 110; 132), i quali attestano come la regalità implichi sì, per il monarca, un rapporto di figliolanza con Jahvé, ma nel genere dell’adozione e non della natura. Ad ogni modo, colui che viene unto Re, è “figlio” di Jahvé e “se l’unto è il figlio, allora è anche l’erede; Jahvé gli consegna i popoli in possesso” [8].
Questa stessa filiazione, capace di fruttare al re-figlio l’eredità dei popoli, era stata promessa anche a Saul. Come dice la Scrittura, infatti:
“Il Signore aveva detto all’orecchio di Samuele, un giorno prima che giungesse Saul: Domani a quest’ora ti manderò un uomo della terra di Beniamino e tu lo ungerai come capo del mio popolo Israele. Egli libererà il mio popolo dalle mani dei Filistei, perché io ho guardato il mio popolo, essendo giunto fino a me il suo grido” (1Sam 9,15-16).
Anche in Saul, quindi, la privilegiata relazione filiale con Dio, che in Dio stesso ha il proprio modello e che successivamente sarà manifestata in Davide, era destinata a realizzarsi per volere di Dio. Saul, però, si rivelerà un uomo mediocre, incapace di concretizzare il destino filiale che l’incoronazione monarchica comporta. Questa stessa mediocrità si riflette anche nella tradizione storico-salvifica, la quale orienta tutta la redazione su Saul unicamente in vista di ciò che verrà, il regno davidico, e mai a Saul in se stesso.
Fonte: Francesco Gastone Silletta – © La Casa di Miriam Torino (Studi Biblici)
NOTE:
[1] Martini C.M., Samuele, profeta religioso e civile, Piemme, Casale Monferrato (Al) 1990, p. 104.
[2] Noth M., Geschichte Israels (1950), tr. it. La storia d’Israele, a cura di G. Odasso, Paideia Editrice, Brescia 1975, p. 213.
[3] Hégelé L., Des Juges aux Rois, Descleè de Brouwer, Parigi (1968), tr. italiana, Dai giudici ai Re, Ed. Paoline, Milano 1968, p. 44.
[4] Sant’Agostino, Enarrationes in Psalmos, Espos. sul Sal. 51, in Opere di sant’Agostino (ed. latino-italiana), Parte III: Discorsi, Vol XXVI, tr. it. a cura di Vincenzo Tarulli, Città Nuova, Roma 1970, pp. 2 – 35, qui p. 5.
[5]Hégelé L., Dai giudici ai Re, op. cit., p. 44.
[6] Von Rad G., Teologia dell’Antico Testamento, I, op. cit., p. 364
[7] Ivi, p. 365.
[8] Ivi, p. 372.