Luca 9,60: Gesù replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annunzia il regno di Dio»(“Ἄφες τοὺς νεκροὺς θάψαι ἑαυτῶν νεκρούς”)

Luca 9,60: Gesù replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annunzia il regno di Dio»
(“Ἄφες τοὺς νεκροὺς θάψαι ἑαυτῶν νεκρούς”)

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Se questa famosa esternazione di Gesù venisse intesa letteralmente e solo secondo l’intendimento materiale, allora vi sarebbe una contraddizione formale, nei Vangeli, quando si legge della sepoltura – e una sepoltura molto ricca – dello stesso Gesù operata da Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo. Evidentemente, quindi, è chiaro qui il nesso spirituale di quella morte, evocata da Gesù, con le cose che attengono alla vita eterna. Non si tratta, cioè, di una esortazione a-prioristica a rifiutare un rito – quello della sepoltura umana – che ha un grande valore etico e teologico anche nella coscienza di Gesù stesso. Tanto più quando esso concerne un parente, e un parente stretto, addirittura un padre, come nel caso dell’episodio in questione. Quella persona aveva tutte le ragioni possibili per domandare a Gesù che – prima di divenire suo discepolo – gli fosse concesso di partecipare alla sepoltura paterna. Gesù non contesta questa volontà di quel giovane, ma la trascende: seguire lui, che è la Vita stessa, è già garanzia di superamento della morte – che ogni sepoltura umana in se stessa auspica – mediante la fede in lui. Essa acquisisce dunque la precedenza morale e teologica su qualsiasi altra ritualità. Vi è però chi, dinanzi alla morte, rifiuta l’economia di vita eterna che Gesù propone già a livello storico: qui viene a stagnare nell’animo umano una morte peggiore di quella carnale, poiché attanaglia lo spirito nella sua non reversibilità. Su queste basi di intendimento si devono intendere quei “morti” di cui parla Gesù nella citata espressione. In quanto tali nello spirito, per una malsana partecipazione, essi divengono a loro volta dei “seppellitori” di cose morte, dei “contaminatori di ciò che vive”, e in tal senso non possono che “seppellire i loro morti” a imitazione di se stessi. Il verbo greco “thaptó” qui è espressione della celebrazione di un rito, più ancora che non dell’atto con cui, sostanzialmente, si scava la fossa a un morto. Viene cioè celebrato, paradossalmente, ciò in cui non si è creduto, la non-vita, la non permanenza eterna delle cose, di cui Gesù è l’espressione incarnata, ossia la Vita stessa. A quel giovane Gesù dice di estraniarsi da questa condotta, di venir fuori dall’intendimento comune: “Tu va, e annuncia il regno di Dio”. L’annuncio è quello della vita, non di un decesso. Anche se vi è la sepoltura di un padre da essere “ritualmente” compiuta, in gioco vi è l’accoglienza e l’annuncio della Vita stessa, che quel rito trascende poiché minimale nel suo senso. Il giovane riesce, per la grazia di Gesù, a intendere come dinanzi alla Vita, non vi è morte alcuna da celebrare in senso definitivo, e soltanto quelli che spiritualmente sono morti – cioè al di fuori di tale comprensione – hanno ancora bisogno di seppellire i loro morti. Amen

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