“Ha dato se stesso per i nostri peccati, per strapparci da questo mondo perverso” (Gal 1,4)
Già Benedetto XVI evidenziava la crisi in alcuni ambienti teologico-pastorali del concetto di “sacrificio”. Un sacrificio totale che Gesù ha operato in nostro favore, e non soltanto nel momento terminale della sua esistenza terrena, ma sin dalla sua stessa incarnazione. La Passione di Gesù, infatti, per lui è iniziata nascendo. Ma sebbene tutta l’Antica Economia sia pervasa da quest’idea di “sacrificio” (in senso prefigurativo), ad alcuni teologi essa va piuttosto stretta, unitamente al concetto di “espiazione dei peccati”, che pure è tipicamente paolino, oltre che giovanneo: “Ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10). San Paolo tuttavia usa un’enfasi, a riguardo di questa bilateralità concettuale (sacrificio/espiazione), che solo un’aprioristica chiusura ideologica – di infatuazione mondana – può negare. L’apertura ardente della lettera ai Galati evidenzia sin dalle prime righe questo orientamento del pensiero di Paolo: “Ha dato se stesso per i nostri peccati”. In greco la frase diviene: “τοῦ δόντος ἑαυτὸν ὑπὲρ τῶν ἁμαρτιῶν ἡμῶν”, dove l’accento teologico è posto in due momenti: il verbo “dare” (greco: didómi, che ha molti sensi, ma qui significa “consegnarsi volontariamente”), e soprattutto il complemento di fine: “i nostri peccati” (greco: “hamartia”, che significa anche “errore”, “mancanza”, ecc.).
San Paolo non viaggia con fantasiose ipotesi teologiche su un possibile riscatto delle nostre colpe anche mediante altre forme di “redenzione” meno cruente e dolorose: piuttosto, si concentra – e in modo intensissimo – sul dato di fatto, sulla storicità dell’evento della croce di Gesù quale esperienza sacrificale, di natura espiatrice, dei nostri peccati. Nel medesimo versetto in oggetto di questa analisi, san Paolo intensifica la questione avvicinando alla consegna di se stesso, operata da Gesù, il carattere “perverso” (greco: “ponéros”, lett. “maligno”) di questo mondo (“aión”).
Ciò che Gesù compie, cioè la consegna espiatrice di se stesso, e ciò a cui essa si oppone, cioè “questo mondo perverso”, sono da Paolo congiunte, a livello testuale, da un verbo forte, ossia “strappare” (greco: “exaireó”). Questo verbo ha il senso appunto di “riscattare, liberare”. Dunque è in forza del suo sacrificio che Gesù ci “libera” dal marciume di questo mondo. La proporzione fra peccato e redenzione, fra gravità della colpa e misura del sacrificio di espiazione, è dunque mantenuta equa in san Paolo, senza vie di fuga teologica in ideologiche altre ipotesi. Gesù ci ha salvati in “questo” modo, secondo cioè l’oggettività della croce, patendo, sacrificandosi, espiando per noi. E ciò “secondo la volontà di Dio e Padre nostro” (Gal 1,4).
La teologia del sacrificio non può dunque legittimamente essere abrogata. Non che Paolo parli di essa unicamente nel testo citato, che anzi, essendo un semplice prescritto, ne affronta l’argomento in modo minimale, alla maniera di una pura introduzione tematica. L’economia scritturistica di Paolo è tuttavia imbevuta di questa idea “sacrificale” ed “espiatrice” dell’evento della croce di Gesù Cristo, che come sappiamo sta al centro del suo interesse scritturistico. “Lui che non ha conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore” – dice ad esempio ai Corinzi nella seconda lettera (v. 5,21). Gesù nella visione di Paolo è il Peccato stesso che viene inchiodato sulla croce, congiuntamente al suo potere di morte. Mediante lui, con il suo sacrificio, Gesù ci “strappa” dalla collera di Dio, affinché possiamo ottenere la salvezza e vivere con lui (1Ts 1,9-10). Il discorso è molto più ampio, tuttavia. Qui non intendiamo sviscerarlo in tutta la sua estensione. Ci basta intendere come Paolo evidenzi il carattere “sacrificale” ed “espiatorio” della redenzione di Gesù Cristo.
Amen
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