La negazione dell’inferno non ha fondamenti biblici né teologici, ma solo umani:

La negazione dell’inferno non ha fondamenti biblici né teologici, ma solo umani:

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Negare l’esistenza dell’inferno è negare, ad esempio, la conclusione del libro di Isaia (o “simboleggiarla”, come oggi in molti fanno): “Uscendo (i santi, da questa vita, nota nostra), vedranno i cadaveri degli uomini che si sono ribellati a me, poiché il loro verme non morirà, il loro fuoco non si spegnerà, e saranno un abominio per tutti” (Isaia 66,24).
Si chiude con queste parole il più lungo libro dei profeti, oltre che senza dubbio il più messianico. E si chiude con una prefigurazione emblematica dell’inferno, che Dio stesso suggerisce al suo profeta. Non sono certo parole che ci devono “rallegrare”, tuttavia, come accade con alcuni commentatori un po’ spericolati che quasi si felicitano che qualcuno possa perdersi in eterno. Questo non è mai cristiano, poiché siamo chiamati a pregare sempre per i peccatori (di cui siamo parte anche noi) e comunque a non aggiungere mai, con la nostra condotta spirituale, una sofferenza ulteriore ai dannati. Altra cosa, tuttavia, è negare con oggettività di coscienza ciò che la Scrittura – e non certo soltanto Isaia – afferma come una realtà inconfutabile, un destino “preparato per il diavolo e per i suoi angeli” (come dice Gesù in Matteo 25,41, il più “isaiano” degli evangelisti). E questo “inferno” non va confuso con l’al di là pre-cristiano, dove anche i giusti, morti prima della risurrezione di Cristo, si trovavano in attesa orante. L’inferno non è lo stesso degli “inferi”, dove Cristo stesso, ci dice Pietro nella sua prima lettera, discese (1Pt 3,19). Inferno implica opposizione volontaria, cosciente e irreversibile al Salvatore, negazione definitiva del suo amore, avversione all’obbedienza a Dio: può iniziare a suo modo già in questa vita, nascosto magari nel più alto benessere, e non avere poi più fine, con la sua dannazione, per l’eternità, a motivo del rifiuto della misericordia estrema del Salvatore. Tornassero indietro, i dannati continuerebbero a odiare Gesù Cristo e a peccare contro lo Spirito Santo. Lo stesso Giovanni ci dice nella conclusione della sua prima lettera che “c’è un peccato che conduce alla morte” (1Gv 5,16), ed è una morte qui intesa come spirituale, cioè senza fine.
Se leggiamo le Scritture e le meditiamo con fede e tanta umiltà, lo Spirito Santo stesso, in esse, ci parla ampiamente dell’esistenza dell’inferno, non per spaventarci, ma per illuminarci affinché esso non riguardi noi, eredi di Cristo, il cui nome “è l’unico nel quale possiamo essere salvati” (cf. At 4,12). Usando l’immagine del legno, evocativa della Croce, anche Ezechiele, grande profeta dei disegni divini sul creato, parla di “un fuoco che li divorerà” (cf. “Ez 15,7), E il libro della Sapienza a sua volta oppone “il legno benedetto” (cf. Sap 14,7) al fuoco della divina giustizia, “il castigo dovuto ai peccatori” (Ivi, v. 31).
Lo Spirito Santo stesso, che è per natura “spirito”, è spessissimo identificato come fuoco, come ad esempio a Pentecoste. Ciò impone all’intelligenza biblica di non naufragare in deliri razionalistici di natura teologica, del tipo: “Come può l’anima, incorporea e dunque non soggetta al senso, patire nel fuoco?”. Queste sono cose umane. Chi ha creato l’anima? Come e da dove l’ha creata? Ebbene, il suo medesimo Creatore sarà capace di creare per essa un castigo o un premio conformi alla sua natura. Amen.

 

Pubblicato da lacasadimiriam

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