Commento al testo di J. Ratzinger, Escatologia, morte e vita eterna
Il testo di Josef Ratzinger condensa delle profonde riflessioni sul senso della morte, inquadrando tale evento entro una cornice teologica con particolare riferimento alla cristologia: “Morire significa essere con Cristo” (Fil 1,34). Se lo studio dell’autore comprende vari ambiti di interesse, sia nell’ordine storico-biblico che escatologico-apocalittico, il punto nevralgico, potremmo dire la chiave di svolta di questa riflessione sembra proprio essere rappresentata dall’apprendimento-scoperta del valore e del significato che la morte, intesa come evento umano, rappresenta per il credente.
Secondo l’autore ha senso, perciò, progredire nella conoscenza della morte secondo quella che lui stesso definisce “la novità cristiana”, oltrepassando così, da un lato, l’antica prospettiva greco-pagana, dove seppur non in maniera totale e definitiva la morte segnava la fine dell’essere uomo nella totalità-coordinamento di tutte le sue funzioni vitali e individuali, destinato ad un ambiguo futuro essere nel non essere, sostanzialmente entro una visione dualistica corpo-anima; dall’altro, nell’AT “tutto ciò che è connesso con la morte è qualificato come impuro, anche il culto dei morti”, e perciò la morte segna anche qui uno “smaltimento” (seppur non di tipo dualistico come per i greci) dell’uomo destinato ad un’esistenza d’ombra nello Sheol.
Ratzinger invece punta sul concetto di morte cristiana quale trampolino di lancio per quello di resurrezione in Cristo, passando tuttavia attraverso la croce: “Il cristianesimo aggiunge che è il confronto con il dolore il vero luogo dove si decide l’umano”.
Rigettando l’idea contemporanea di una “subitanea mors”, Ratzinger sottolinea come quella cristiana sia indiscutibilmente una religione per la vita, oltrepassando però un concetto semplicistico (platonico) di immortalità dell’anima ad esclusione del corpo, ed ammettendo assieme ad O’Culmann che “l’immortalità dell’anima è uno dei più grandi fraintendimenti che riguardano il cristianesimo”.
L’autore contesta, quindi, una posizione di matrice luterana secondo cui non sarebbe cristiano parlare di immortalità dell’anima, perché non biblico, mentre avrebbe senso solo parlare di risurrezione dopo la morte.
Ratzinger insiste invece sulla necessità di una ermeneutica che unisca al mero dato biblico l’uso della ragione, contestando anche la tesi di Greshake, per il quale la resurrezione avviene nel momento stesso della morte. È in gioco, infatti, l’esistenza-sussistenza di uno stato intermedio dopo la morte, che Ratzinger vigorosamente difende, e lo difende ancora una volta cristologicamente: il dialogo fra Lazzaro e Abramo ed il dialogo fra il ladrone pentito e Cristo sono per lui dialoghi circa l’esistenza di uno stato intermedio, e con Jeremias sostiene che “l’interpretazione cristiana dello stato intermedio è la comunione dopo la morte con Cristo”.
Vi è dunque un centro cristologico che garantisce al credente l’indistruttibilità della vita, che si apre a lui nella fede (cfr. 2Cor 5,1-10; Fil 1,34).
Di qui Ratzinger chiarisce che esiste un sostrato antropologico della dottrina cristiana fondato sulla visione giudaica, il veicolo dell’essere con Cristo, dell’esistenza della persona umana che perdura oltre la morte è chiamata quasi ovunque “anima” oppure “spirito”. Tuttavia, l’autore tiene a sottolineare un oltrepassamento della visione aristotelica di entelechia, nel senso di stretta ed inscindibile unità-dipendenza fra psiche e materia; e questo utilizzando come fonte di riferimento la trasmutazione tomista di tale concetto, l’anima come forma corporis: ciò che è forma del corpo è per Tommaso assieme uno spirito, fa dell’uomo una persona e gli apre l’immortalità.
È questa una delle non frequentissime citazioni di Tommaso presenti negli studi di quest’autore. Dalla visione tomista deriva quindi che l’immortalità appartiene all’uomo per natura.
Un altro punto nevralgico, tuttavia, risulta la corporeità reale dell’uomo nuovo, dell’uomo risorto. Il punto di riferimento è ancora una volta cristologico, ovvero sia il corpo stesso di Cristo risorto (cfr. 1Cor 15). Per Ratzinger ha senso parlare di una corporeità oltre il concetto adamitico di “corpo animato” e ammettere con s. Giustino che “quando all’uomo viene annunciato il Vangelo della salvezza, allora questa salvezza viene annunciata anche alla carne”. Per Tommaso, poi, non può esserci nessuna identità fra il corpo precedente e quello successivo alla morte: “In Cristo” – secondo Ratzinger – “la materia e lo spirito saranno coordinati l’una all’altro in modo nuovo e definitivo”.
Due ultimi passaggi di questo testo sono ritenuti da noi particolarmente significativi: l’uno riguarda il concetto dell’autore (di fonte agostiniana) circa la nozione di tempo, l’altro riguarda la nozione di storia e il rapporto indistruttibile della vita umana con la storia stessa.
Quanto al tempo, l’autore riprende l’amato Agostino e la sua nozione di “praesens de preterito”. L’uomo, secondo Agostino, non ha solo un suo tempo fisico, ma anche antropologico: il tempo–memoria. Infatti, “solo la memoria crea questa singolare realtà che è il presente: nella memoria anche il passato è presente, ma in un modo che questo presente del passato è diverso dal presente attuale” (S. Agostino, Confessioni – libro 10).
Ciò significa che nella sua funzione spirituale l’uomo è temporale in maniera diversa e più profonda di quanto lo sono i corpi fisici. “Quando poi il tempo memoria lascia il mondo del bios, il tempo memoria si scinde dal tempo fisico per perdurare in seguito come puro tempo memoria: l’uomo che muore esce dalla storia, essa è per lui conclusa”.
Proprio la storia, tuttavia, ha un rapporto indistruttibile con l’uomo, perché “un peccato che continua a ripercuotersi nei suoi effetti rappresenta qualcosa di me stesso, rappresenta un mio assoggettamento al tempo. E proprio questo peccato che brucia ancora, provocando sofferenze dirette, è definito purgatorio”.
L’intera storia umana, pertanto, dovrà compiersi sino in fondo prima che, anche se già morto e giudicato individualmente, il singolo uomo possa ricevere il suo posto definitivo. Ma questo giudizio, per l’autore, non è un “neutrum”, ma persona, e “la stessa storia non si perfeziona dentro la storia stessa” (contro Marx, Hegel, ecc.) Sarà infatti soltanto la Verità a giudicare, e questo implica una trascendenza sulla storia.
Fonte: La Casa di Miriam Torino