“Quando l’anima è martirizzata nel dominio della carne”

“Quando l’anima è martirizzata nel dominio della carne” ***

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Non è possibile questa discrepanza ontologica – che mette orrore solo a pensarla a qualunque anima sia ancora “un’anima”, ossia non anch’essa relativizzata e martirizzata nel dominio della carne e della materia – ebbene, non è possibile questa discrepanza tra il Salvatore Gesù Cristo, che patisce ogni sorta di pena per liberarci dal dominio del peccato, di cui la morte è l’esito più eloquente, e noi, che invece continuiamo a peccare, a pensare ai piaceri del mondo, a preoccuparci un po’ di tutto, tranne che del rendimento di grazie a Gesù stesso, nella preghiera e nel raccoglimento interiore. Tutto ciò è un abominio che non muta con il tempo, iniziato più o meno da quello stesso giorno di Parasceve di circa duemila anni fa e protrattosi dinamico nel tempo, dove il “dinamico” è dato dal suo progressivo peggioramento globale. Forse che Gesù è morto in croce affinché noi fossimo liberi di fare il male? Di commettere adulteri, di accumulare ricchezze sulla terra, di nuotare nei vizi, nelle finte “libertà” di questo mondo, che schiavizza l’uomo ogni giorno di più a se stesso? O non piuttosto, il nostro amato Gesù, ha patito ed è morto affinché la Verità fosse evidente nella sua santità, nella sua purezza, nella sua luce infinita?
Se il mondo non intende – perché non vuole intenderlo – tutto ciò, noi che ci diciamo cristiani non possiamo comportarci allo stesso modo del mondo, ma dobbiamo mantenere la croce di Cristo impressa in noi, in ogni pensiero ed attività della terra, sapendo che non è quest’ultima la meta finale per la quale siamo stati creati, ma il regno di Dio, che Cristo ci ha aperto mediante la sua opera di salvezza. Se siamo cristiani, lo siamo a tutto tondo, integralmente, senza sconti alle difficoltà dell’esistenza, ma anzi, consapevoli che le croci umane sono il sigillo sulla fronte di chi si muove alla sequela di Cristo, e senza di esse, non vi è partecipazione a lui in eterno. Per comprendere questo, basta guardare alle sofferenze apostoliche e a quelle dei santi di ogni tempo. Lo sguardo del cristiano, in tal senso, non deve essere diretto al mondo, a tutti i suoi piaceri e a tutto l’intricato “mondo nel mondo” di cose possibili da fare, dimenticandosi della propria identità di creature che sono ontologicamente somiglianti a Dio, secondo ciò che insegna la Scrittura stessa. Ad esempio ci è data, come è propria di Dio, la similitudine di poter generare nell’amore: generare vite umane, nella santità del matrimonio, ma anche vite spirituali, nella santità dell’apostolato; generare pace, nello spirito di unione fraterna, o generare guarigioni, nella somiglianza perfetta con lo Spirito di carità.
Se teniamo fissi gli occhi e il cuore verso Gesù, ci ritroviamo immersi in una sapienza nuova, che non è il frutto di alcuno studio, né di alcun corso di formazione, ma unicamente dell’amore riconoscente verso Colui che con il suo sangue ci ha redenti e liberati dalla schiavitù del mondo e delle sue leggi. Quanto più diveniamo immersi nell’amore di Gesù, tanto di più il mondo si allontana da noi, con le sue preoccupazioni, le sue seduzioni e i suoi compromessi, e noi al contempo ci allontaniamo da lui, rimanendo in esso solo per quell’attimo di tempo – che è questa vita sulla terra – unicamente al fine di glorificare Dio nella convivenza dell’anima e del corpo, ossia nell’integralità di noi stessi, acquisendo il merito che, nonostante la pesantezza della carne, essa non divenga oscuramento sensuale per l’anima, ma supporto sacramentale di essa. La carne è infatti stata crocifissa con Gesù, e noi dobbiamo meditare spesso questo evento di misericordia: fare memoria del valore che, intrisa di malizia e di perversione, la carne possiede dinanzi a Dio, ossia quello della sua crocifissione e morte.
Gesù soffre sulla croce, ed essendo noi la causa e il fine della sua sofferenza, dobbiamo – è esigito da qualsiasi logica teologica – partecipare di questo “noi” che ci vede tutti uniti nell’atto della crocifissione dell’Uomo, il nostro Salvatore Gesù. Il modo di questa partecipazione ai patimenti di Gesù è lo Spirito Santo, non il nostro umano intelletto, a stabilirlo: a noi sta l’accettazione di questa partecipazione, sapendo che ciò che in Cristo viene partecipato nel dolore, lo è tanto di più nella gloria del Cielo, che non ha mai fine. Amen

*** F.G. Silletta

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