La concupiscenza come negazione dell’amore ***

La concupiscenza come negazione dell’amore ***

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 “Non amate né il mondo, né le cose del mondo. Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza”. (1Gv 2,15s.)  

Questo versetto della prima lettera di san Giovanni Apostolo, è fondamentale per la vita cristiana di ogni tempo. In esso è rivelata la natura della concupiscenza, ossia quel fomite che ci rende – se assecondato – nemici di Dio nel peccato. E questa concupiscenza, ci svela Giovanni, ha una triplice struttura, secondo la carne, secondo gli occhi e secondo la superbia (del cuore). Essa è antitetica a Dio, amando essa – che è diffusa nel mondo – non si ama Dio, ossia, più semplicemente, non si ama affatto, essendo lo stesso Giovanni, più avanti in questa lettera, che ci svela l’amore come sostanza di Dio. Vi è una fondamentale differenza fra Dio e il mondo, fra l’amore per l’uno e per l’altro, che Giovanni – grande teologo della Carità – evidenzia con forza non solo in questo versetto, ma in tutta la sua lettera e un po’ in tutti i suoi scritti; questa fondamentale differenza è che il mondo passa, con la sua concupiscenza, mentre Dio è eterno, come eterno è il suo amore. Se proprio Giovanni è l’Evangelista che ci rivela – e due volte – come Gesù abbia consegnato ai suoi Apostoli (e a noi per mezzo di essi) il comandamento dell’amore, ora, in questo versetto, egli elabora una sorta di breve, ma efficace, teologia negativa di questo amore, sviscerando cioè che cosa significhi non-amare Dio. Questa teologia è un comandamento di negazione: “non amate il mondo, né le cose del mondo”: a differenza dell’ “Amatevi gli uni gli altri” evangelico (cf. Gv 13,34; 15,12), qui il tono del comando è di natura negativa: non agite in questo senso. Non vi è via di mezzo nell’antitesi giovannea posta fra il mondo e Dio: l’amore non circola, infatti, in modo comune e condivisibile ad entrambi. Amare il mondo è negazione del vero amore, che viene da Dio.

Per due volte Giovanni usa il termine concupiscenza (in greco: ἡ ἐπιθυμία) in riferimento alla carne, in prima istanza, e agli occhi (in seconda istanza). Queste due applicazioni sono molto connesse fra loro. “Gli occhi”, nel Vangelo giovanneo, sono fondamentali in quanto essi permettono di vedere Gesù, di riconoscere dove dimora (cf. Gv 1,39; ecc.), di vedere in lui il Padre (cf. 14,9; ecc.), di vedere i suoi segni (cf. 2,23; 6,30; ecc.), i suoi miracoli (cf. 6,14.19; ecc.), le sue opere buone (cf. 10,32; ecc.), di vedere e credere in lui a motivo della visione avuta (cf. 6,40; 11,45; 20,8; 20,29; ecc.). Se essi sono contaminati dalla concupiscenza, la visione viene anch’essa contaminata (cf. ad es. 12,39-40) e la fede non può sorgere. Così è della concupiscenza della carne, laddove quest’ultima viene idolatrata e lo spirito è sovvertito ad essa (cf. 3,6). Nella sua prima lettera, Giovanni inizia proprio “cantando” la vita che si è resa visibile mediante Gesù: la concupiscenza degli occhi e della carne, tuttavia, confondono questa visione, ne appannano la manifestazione salvifica e la disperdono tra le cose del mondo.

Sempre nella stessa prima lettera, Giovanni evoca ancora il termine “concupiscenza” secondo la sua estensione temporale, ossia secondo la sua limitatezza storica. Essendo “nel mondo” (ἐν τῷ κόσμῳ), la concupiscenza passa con esso. Dal canto suo, la superbia della vita (1Gv 2,16) viene evidenziata come l’atteggiamento di colui che perimetra la sua esistenza entro i confini di se stesso, non rimettendosi alla volontà e al giudizio divino. Essa chiude ogni possibilità di “amore”, poiché emargina l’uomo stesso dall’amore di Dio. Tuttavia è solo chi rimane in quest’ultimo che vive in eterno (1Gv 2,17). Ogni logica di concupiscenza e di attaccamento a se stessi è abolita da Giovanni come possibilità di esistenza senza fine in Dio. Chi rimane nell’amore, infatti, partecipa dell’eterna comunione d’amore del Padre e del Figlio (cf. 1Gv 2,24-25) e dunque vive in eterno.

Ecco quindi che il comandamento che si è definito “negativo”, posto da Giovanni nella sua prima lettera rispetto all’abbandono del concupiscibile e del superbo come negazione esistenziale, viene superato, nella sua negatività, dalla positività del “rimanere” nella volontà di Dio (cf. 1Gv 2,17: “μένει εἰς τὸν αἰῶνα”, “rimane in eterno chi fa la volontà di Dio”). Qui è in gioco la vita stessa di ogni uomo, la sua eternità salvifica: si tratta di un “comando” che costituisce anche una scelta dell’uomo: la transitorietà concupiscibile del mondo che passa, o l’eternità di Dio eseguendo la sua volontà. Amen

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