Commento al testo di Pannenberg, The historicity of nature

Commento al testo di Wolfhart Pannenberg,
“The historicity of Nature” –
Part three, “Religion and antropology”,
c. 7 – “Religion and human nature” –
pp. 75-86

Una prima lettura di questo valido compendio del Pannenberg, intitolato, nella versione inglese, “The Historicity of Nature”, mi aveva portato inizialmente a concentrarmi sulla parte intitolata “Meaning and Metaphysics”, ed in particolare sull’Unita`14, intitolata “Atomism, Duration, Form: difficulties with process philosophy”. La ragione di questo mio primo approccio a tale argomento è da individuare nell’apporto innovativo che il Pannenberg offre alla Teologia della natura, cercando di mantenerlo costantemente in dialogo/unità con il sapere scientifico e filosofico: “Theology should no longer be able to avoid rational control and shelter itself against scientific critique” .
L’autore, in particolare, entra dialetticamente entro ciò che egli stesso racconta, intervenendo con alcune sue convinzioni particolari e tipiche del suo pensiero. Una di queste è certamente quella secondo cui va rigettata l’idea di un ordine fisso delle leggi della natura, immutabile, determinato. Così dice a tal proposito: “Like species, laws of nature also emerge in history and may go extinct… Not only the phenomena of nature is historical in nature, but also the very law of nature”.
Pannenberg guarda a Dio come creatore costantemente in atto, e perciò sempre auto-rivelantesi, e si oppone ad una bipartizione-opposizione fra due diversi domini del sapere, l’uno espresso nelle scienze e l’altro di matrice teologica. Questa sua chiara propensione all’unità, che pur tuttavia non deve essere intesa come cancellazione delle diversità epistemologiche e metodologiche fra le discipline, lo avvicina non poco al presupposto epistemologico di A.N. Whitehead, sul cui pensiero in questo paragrafo Pannenberg si sofferma parecchio, in particolare sulla filosofia del processo che, secondo lui, ha influito a proprio modo nella visione teologica del ’900.
Tuttavia, al termine di questa lettura, abbiamo scelto di utilizzare un altro estratto di questo testo quale argomento di riflessione, ovvero la “Part three”, intitolata “Religion and Anthropology”, ed in particolare il capitolo 7, “Religion and Human Nature”. Da un punto di vista critico, anzitutto, tale brano appare più “leggibile”, nel senso di comprensibile, rispetto al precedente. Qui Pannenberg appare più chiaro e lineare nell’esposizione del proprio pensiero, si comprendono il traguardo ed il fine del suo discorso, che non viene troppo mescolato, rischiando così di confondersi, con quello di altri autori, come invece avviene nell’altro brano. Soprattutto, la tematica affrontata prende progressivamente quota, suscita un crescente interesse e lascia soddisfatti non appena si arriva all’ultima pagina, nel senso che si comprende chiaramente il messaggio che l’autore vuole inviare al proprio lettore. Le citazioni, è vero, sono numerose anche qui, ma appaiono molto più ordinate e meno “ossessive” rispetto al brano precedente, “funzionali” al tema, diremmo quasi obbligatorie perché il punto di vista risulti aperto e coordinato a quello di altri autori. Del resto Pannenberg ha per fama l’attitudine all’interdisciplinarietà e perciò un confronto critico con altri autori e discipline è una tappa obbligata nei suoi scritti.
È questo il caso anche del brano in questione, estratto dal testo che stiamo esaminando. Qui il confronto interdisciplinare ha come interlocutori privilegiati essenzialmente la sociologia, ed in particolare la sociologia della religione, e la psicologia, soprattutto il ramo legato all’infanzia ed allo sviluppo. Pannenberg, da teologo, si pone nella posizione intermedia di spartiacque, dimostrando tuttavia di conoscere, da un lato, la materia che sta trattando e, dall’altro, di sapersi porre nel contesto argomentativo che egli stesso elabora, intervenendo con riflessioni proprie e personali.
Il punto di partenza è una questione ben precisa, ovvero se l’uomo sia o non sia “naturalmente” religioso, se abbia cioè sin dai primi istanti della propria esistenza una “appartenenza in Dio”, un riferimento trascendente, una “estasi emozionale”, come la chiama l’autore, che testimoni un “di più” rispetto a ciò che è invece limitativo per l’uomo. Ora, l’autore parte da una considerazione generale, ovvero che molti sociologi, pur riconoscendo un ruolo inizialmente fondamentale della religione nella vita dell’uomo, relegano tale ruolo ad uno “stadio primitivo”, venuto meno poi con il sorgere delle culture, insomma con un oltrepassamento della sfera individuale del soggetto: “According to E. Durkheim and J. Habermas (who developed Durkheim’s thought), religion is fundamental to the life of primitive humans, expecially for their social systems… but the enlightened human being no long needs religion: thelogy is replaced by sociology”.
La religione, quindi, intesa più come “religiosità”, viene riconosciuta come un dato, sì, ma soltanto iniziale, che diviene poi marginale e via via tende a sparire nel momento in cui avviene l'”emancipazione sociale” dell’individuo.
Di fronte a tali tesi, che seppure in modi spesso diversi pervengono più o meno alla medesima conclusione e che hanno in C. Levi-Strauss un illustre esponente, Pannenberg oppone tre elementi che paiono remare contro questa direzione di pensiero e lo fa su basi paleologico-archeologiche e psicologico-antropologiche: “An overwhelming wealth of findings attests to the constitutive significance of religion expecially at the beginnings of human development and in early cultures”. Questo pare attestare, secondo lui, una originaria associazione fra “humanity and religion”.
Un primo elemento chiave è per Pannenberg l’antichità dell’uso delle sepolture. Qui pare evidente il soggiacere di un contenuto di fede, seppure dalle sfaccettature spesso confuse e variegate, tuttavia presente, vivo, reale. Addirittura, K.J.Narr, che fa risalire l’usanza delle sepolture all’età della pietra, pone qui l’inizio dell’umanità in senso stretto: “The demonstrability of burials is a decisive criterion for determining the end of the transitional phase from beast to human and thus for the beginning of humanity”.
Un secondo elemento è quello che Pannenberg approfondisce di meno, probabilmente in vista del successivo, sul quale invece si sofferma a lungo. Tale elemento è la radice religiosa di tutte le culture, che tuttavia viene per così dire “apostatata”, palesemente confutata dall’antropologia culturale moderna.
Il terzo elemento è quello cui l’autore pare tenere di più, forse anche alla luce di una sua preparazione più dettagliata in merito: l’origine del linguaggio.
Rispetto a tale tematica, Pannenberg pone subito avanti una tesi fondamentale, ossia che nell’eziologia del linguaggio non ci sono solo elementi di matrice psicologico-sociale, bensì anche un “Religious Factor” che sembrerebbe porsi in posizione dominante rispetto agli altri. L’interlocutore principale in questo contesto è la psicologia dello sviluppo, ed in particolare uno dei suoi più illustri rappresentanti, Jean Piaget. Occorre qui seguire da vicino le parole dell’autore: “Piaget has demonstrated that the acquisition of language is closely related to children’s play. But play, human play at any rate, is in turn not the kind of innocent phenomenon Piaget thought it was. Rather, in its origin […], as a representative and imitative phenomenon, it is bound up, from a cultural-historical point of view, with the sphere of the cult”.
Il dato di fatto che Piaget ha individuato è il legame simbolico fra il gioco del bambino (inteso qui come “l’atto di giocare”) e l’acquisizione del linguaggio da parte del bambino stesso. Infatti, mediante gli strumenti di gioco il bambino rende concreta un’immagine-rappresentazione soltanto immaginata, come l’atto di cavalcare un cavallo. Piaget inquadra questa fase fra i 4 e i 7 anni di vita del bambino e chiama come “mythic and animistic” i caratteri di questo incipiente linguaggio del bambino stesso, in cui, in linea con E. Cassirer, “the object itself appears in the vocal sound”.
Il linguaggio ha perciò la funzione di rappresentare, nel senso, potremmo dire, di dare un volto nominale, gli oggetti, le situazioni, i fatti che il bambino sperimenta attraverso il gioco.
Pannenberg si inserisce qui affermando come decisivo il passaggio dai “signals to namings directed at objects” . Questo fa della “parola”, secondo lui, realmente un “simbolo”, perché rende presente l’oggetto-realtà assente, ed esso ha un carattere “mitico”, perché attribuisce all’attività esperita (nel gioco) l’oggetto “nominato”.
Il punto fondamentale è che Pannenberg mette in luce questa esperienza creativa del gioco-linguaggio nei termini di “Religious emotion”, cioè di un’esperienza, come tutte quelle “creative” dell’uomo (“all creative human activity”) che trascende lo stesso soggetto che la esperisce.
Pannenberg approfondisce questa sua visione successivamente, affrontando il tema della Symbiotic-sphere tra il bimbo e la madre. Prima di questo, tuttavia, mette l’accento sulla citazione iniziale del pensiero di Durkheim e di Habermas, secondo cui “Modern humans have emancipated themselves from these religious beginnings and taken charge of their own lives”.
Rifacendosi a Freud, per il quale era gravoso per l’uomo il peso della repressione degli istinti sessuali, Pannenberg si chiede se non sia altrettanto gravosa per l’umanità la repressione della sua naturale dimensione religiosa. Citando Victor Frankl, infatti, asserisce che “the ultimately responsible for the rapid increase in neurotic illness and in number of suicides his the view of our secular world, having forgotten God”.
L’ultima parte è un ulteriore approfondimento dell’autore contro la tesi (sostanzialmente di Berger) per cui “religion has now been replaced by a self-emancipating, purely form of human life”. In questa definizione è soprattutto il termine “self-emancipating” a generare i dubbi dell’autore, che nuovamente ricorre alla psicologia dello sviluppo per avallare le sue convinzioni.
L’interrogativo fondamentale è, quindi, quando effettivamente si registri questo sorgere del’Io, alla luce anche degli studi di J. Loevinger, per cui “the ‘I’ doesn’t exist much before the use of the word is learned”.
Qui l’autore si pone ancora una volta “nel contesto”, intervenendo con le proprie riflessioni. Se è vera e innegabile, l’esistenza di un periodo di “common-life”, cioè di vita in comune fra il bimbo e la madre agli inizi della sua esistenza, in cui non esiste ancora un “sé” differenziato nel bambino, ma piuttosto la cosiddetta “symbiotic-sphere”, in cui cioè “the child is bound up with her in a single sphere of life”, l’autore si chiede quale sia realmente la natura di questa “sphere of life” all’inizio dello sviluppo del bambino. Prima di dare una risposta, Pannenberg evidenzia come in questa fase avvenga ciò che Erik Erikson chiama “the basic trust”, cioè un’apertura totale (fiducia) del bambino al mondo in cui sta crescendo, “an expectation of sustenance, nourishment and support” che trova idealmente configurata nella madre. E tuttavia, anche dopo le prime fasi, l’Io nascente è suscettibile facilmente a confondersi in ogni momento con altre realtà.
Secondo Pannenberg, la figura della madre non va intesa tanto come “simbolo della società”, perchè, al di là delle aspettative del bambino, di fatto ella non può, se non limitatamente, rispecchiare tutto ciò che il bambino stesso si configura per mezzo di lei. Esiste piuttosto una realtà unificante che sta oltre la figura limitata della madre e che comunque si manifesta attraverso la madre stessa, e questa istanza è per l’autore Dio stesso: “At the beginning of infant development the mother represents the world to the child, and not only the world, but God as well, the ultimate sheltering and sustaining horizon for the child’s life, the horizon in relation to which the inchoate ecstasy of the symbiotic life of infancy’s first weeks is transformed into that amazing trust that opens itself to a world that we grownup know is so little deserving of our trust”.
In definitiva, per Pannenberg, la madre è rappresentativa di Dio all’inizio dello sviluppo del bambino e ciò sarebbe un’ulteriore prova della “natura religiosa” dell’essere umano. E tuttavia, come tiene a precisare l’autore, non si tratta affatto di una prova dell’esistenza di Dio, ma piusttosto di una comprensione del fatto che “religious, whatever form it may take, is a necessary dimension of human life, and if it dies, one must expect consequential deformations in the development potential for human lives”.

– Francesco Gastone Silletta – Edizioni La Casa di Miriam Torino – Studi – 

Pubblicato da lacasadimiriam

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