“Un servo non è più grande del suo padrone” (Gv 15,20) Οὐκ ἔστιν δοῦλος μείζων τοῦ κυρίου αὐτοῦ

“Un servo non è più grande del suo padrone” (Gv 15,20)

Οὐκ ἔστιν δοῦλος μείζων τοῦ κυρίου αὐτοῦ

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Gesù esprime due volte, in Giovanni, questo concetto. La prima in modo più ampio, ponendo la distinzione ontologica fra padrone e servo sullo stesso piano di quella fra Colui che invia e il discepolo inviato. Questo accade nell’ultima Cena, quando gli animi degli Apostoli sono scossi e ancora al di qua di una comprensione netta della natura stessa della loro funzione apostolica (cf Gv 13,16). Tuttavia, in questa prima circostanza, queste parole hanno un senso fondamentalmente e limitatamente esortativo all’imitazione di Gesù: come cioè lui agisce, che è il Maestro (nella metafora, il padrone), così i discepoli (nella metafora, i servi), devono agire. Ma è soprattutto nel secondo richiamo a questo medesimo concetto – che Gesù proferisce ancora nel contesto della cena di addio – che viene calcato il senso chiave (cf. Gv 15,20). Gesù, infatti, qui inizia dicendo: “Ricordatevi della parola che vi ho detto” (μνημονεύετε τοῦ λόγου οὗ ἐγὼ εἶπον ὑμῖν), ossia di ciò che già aveva annunciato sull’ontologia relazionale fra padrone e servo.

Lette secondo un senso solamente “didascalico” (convertendo cioè le immagini nella prospettiva di una relazione Maestro/discepolo), queste parole sembrerebbero far pensare a un ammonimento di Gesù di natura soltanto “culturale”, ossia: il Maestro va considerato tale anche quando i suoi discepoli aumentano la loro conoscenza. In realtà, Gesù pone le sue parole a livello esistenziale più che non culturale e, in modo specifico, di una esistenza nel dolore. Ossia: se ha sofferto il Maestro, così soffriranno i suoi discepoli, non essendo “più grandi” del Maestro stesso. “Se hanno perseguitato me”- dice Gesù – “perseguiteranno anche voi”. E tuttavia, la sequela discepolare di Gesù non va pensata unicamente come una sequela nel dolore, sebbene esso renda simili al Maestro. In questa sequela, infatti, Gesù contempla anche la possibilità dell’ascolto, ossia di qualcuno che oggettivamente diriga la sua esistenza nella direzione di ciò che ha udito dai discepoli di Gesù. Ecco quindi l’altro volto del discepolato: “Se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra”. Il non poter essere “più grandi” del Maestro, implica quindi il fatto che, come il Maestro stesso si è imbattuto nella dicotomia “accoglienza/rifiuto” (sebbene sia nettamente prevalso quest’ultimo nei suoi riguardi), così anche il discepolo deve accogliere questa opposizione nella stessa progettualità della sua testimonianza discepolare. Non potendo, cioè, essere più grandi del Maestro, non è possibile né auspicarsi, né esimersi da un confronto esperienziale con l’odio del mondo, ma anche con l’ascolto ossequioso di alcuni, i quali diverranno anch’essi dei discepoli non sovrapponibili, ma unicamente “disponibili”, all’imitazione dei loro maestri, gli Apostoli, secondo l’unica linea verticale e gerarchica che presuppone e costituisce la relazione fra Maestro e discepoli, anche quando essi stessi sono ormai docenti. Amen

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