“Vi ho detto che morirete nei vostri peccati; se infatti non credete che io sono, morirete nei vostri peccati” (Gv 8,24)

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Se uno non vuole la salvezza di Cristo, la salvezza non è più una questione di divina misericordia – che rimane infinita – ma di umana volontà, soggetta a tutti i limiti umani e incapace di donare salvezza:

“Vi ho detto che morirete nei vostri peccati; se infatti non credete che io sono, morirete nei vostri peccati” (Gv 8,24)

Questo versetto del Vangelo di Giovanni, che contiene delle parole dette da Gesù nel Tempio e riferite ai “Giudei” (abbiamo già parlato altrove dei sensi distinti di questo termine nel linguaggio di Giovanni), nella sua sostanza è una profezia rispetto alle sorti dei medesimi. Si può obiettare – sulla falsariga dell’ipotesi – che la non salvezza sia soltanto evocata da Gesù ai Giudei, qualora essi non mutino il loro modo di intendere (meglio dire: di “non” intendere) lui stesso in quanto Salvatore mandato dal Padre. In realtà, dal modo in cui Gesù sta parlando, considerato sia in senso teologico che puramente linguistico, si può intuire come Gesù non stia soltanto “ventilando un’ipotesi” a quei Giudei, ma stia molto di più anticipando un esito di perdizione. La lettera, qui, aiuta a comprendere ciò che la teologia già di suo intuisce. Vi è infatti un gioco di tempi verbali distinti, in queste parole dette da Gesù, che alternano un’idea condizionata (ad es. “se non…”), a un’idea futura (ad es. “morirete nel vostro peccato”, idea ripetuta tre volte in soli tre versetti, cf. 8,21-23), ma soprattutto – e questo è l’elemento decisivo – ad un’idea presente, e presente in modo definitivo, non cioè soggetto a variazioni: “non credete che io sono”. Il “se”, davanti, potrebbe soltanto illusoriamente far pensare ad un possibile “cambio”, nella condotta dei destinatari di questi ammonimenti di Gesù, quasi che quel “se” fosse una condizione che potrebbe mutare l’esito della profezia della non salvezza ivi evocata da Gesù stesso ai Giudei. L’Evangelista, che redige queste parole di Gesù, è infatti attento all’uso del tempo verbale (“Non credete”), chiudendo ogni possibilità “condizionale” aperta dal “se.. non”. Dice infatti il testo greco di Giovanni: “ἐὰν γὰρ μὴ πιστεύσητε”, cioè: “Se non credete”, che teologicamente sfuma in un più definitivo e inappellabile: “Dal momento che non credete”, rimarrete nei vostri peccati, ossia al di fuori della salvezza.
Gesù, è detto, sin dal secondo capitolo di Giovanni stesso, sa dall’inizio chi sono quelli che lo cercano o con cui viene a parlare. La sua conoscenza di essi è onnicomprensiva, trascendente i mutamenti individuali di ogni uomo, anche quelli della fede in lui. E sa benissimo, Gesù, che questi “Giudei” che in questo contesto gli si oppongono al Tempio non vogliono la sua salvezza, poiché non credono, in modo insolubile, in lui. Ivi, dunque, l’infinita misericordia di Dio non può essere più evocata quale “finale” traduttore di ogni umano difetto. Se uno non vuole credere in Gesù, in modo risoluto e cosciente, ossia non vuole la sua salvezza, non la ottiene mai, secondo le sue intenzioni. Amen

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