Mt 18,34: “E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto” – ossia lo mandò in purgatorio, diciamo noi

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Mt 18,34: “E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto” – ossia lo mandò in purgatorio, diciamo noi:

 

Questa famosa parabola di Gesù, nella quale si dice di un re buono, che condona ad un suo servo il debito di diecimila talenti (una cifra esorbitante), il quale a sua volta esige con la violenza, una volta libero dal debito, che un altro suo servo gli restituisca ciò che a lui deve, ossia la somma di cento denari, è molto conosciuta, anche se non sempre viene analizzata con dovizia di dettagli, e non soltanto letterari, ma anche teologici. Innanzitutto, si tratta di una “parabola”, la quale non è un artificio fiabesco, ma un modo indiretto – mediante immagini e coloriture simboliche – di esprimere un contenuto di verità teologica. “Parabola” non significa quindi “invenzione” del contenuto in essa esposto, ma la sua esplicitazione mediante una astrazione dalla storia reale, rimandando comunque ad essa nella sua finalità espositiva. Un modo diverso da quello “immediatamente storico”, che Gesù spesso utilizza per comunicare la sua verità e annunciare il suo regno alla gente. E infatti la premessa a questa parabola sta proprio nel fatto che essa sia un modo di descrivere “come sia fatto” il regno dei Cieli e quali esigenze etiche esso comporti, in che modo vi ci si giunga o, eventualmente, se ne resti esclusi. Se si parla di “regno”, è ovvio che ci debba essere un re, ossia Dio stesso. Ma questo “re”, viene ivi descritto come immensamente disposto a soprassedere a ciò che, a livello di giustizia immediata, dovrebbe essere pagato, ivi espresso mediante la rappresentazione di un debitore di una cifra immensa, che non è capace di rifoderarla. Cosa genera la pietà del re, sino a spronarlo al condono di un debito così grande? La supplica di quel servo debitore, che ammette la propria miseria e la sua impossibilità – almeno a livello immediato – di “giustificarsi” ai suoi occhi saldando quel debito. Si deve qui notare come, inizialmente, a motivo di quello stesso debito insoluto, a quel servo fosse destinato di essere venduto, lui, la sua famiglia e i suoi beni, in modo da compensare quanto dovuto economicamente. A livello teologico, poiché questa similitudine è inserita in una parabola del regno, si evince come, non possedendo quanto annulla, giustificandolo, un determinato debito dinanzi al re – cioè a Dio – non si possa avere, a livello di pura giustizia, “ipso facto” alcuna compiacenza di Dio, ma si debba espiare in qualsiasi modo la pena dell’insolvenza del debito con lui. Solo una decisione straordinaria del re, cioè di Dio, può ottenere al debitore un gratuito perdono e il condono del debito, che trascende la pura giustizia e si pone a livello di una soggettiva e liberissima misericordia divina. E tuttavia, questo agire del re – che appunto non dipende da alcun parametro o legge di giustizia, ma unicamente dalla sua libera volontà – deve essere imitato a sua volta da colui che ne beneficia, tanto più a motivo della grandezza del debito condonato. Non può sussistere in alcun modo, infatti – e qui non c’è perdono che valga – una abitazione nel regno di Dio da parte di qualcuno che, avendo ricevuto misericordia, non usi a sua volta misericordia con il suo prossimo, chiunque egli sia. Non esiste, cioè, alcun “abitante dei Cieli” che non sia stato capace, nella vita sulla terra, di condonare un debito, per un puro atto d’amore, a un suo simile (e tutti noi siamo simili, dinanzi a Dio, gli uni gli altri, in quanto suoi figli). Se tuttavia si sottintende che una abitazione nel regno dei Cieli non è possibile per una tale tipologia di soggetti, si suppone anche che un’altra abitazione debba sussistere, nella quale tali soggetti abbiano modo di purificarsi dalla loro crudeltà e dall’indisposizione al condono di un debito ad un fratello. Questa abitazione, distinta da quella del regno, non può tuttavia essere associata “tout court” a quella dell’inferno. La parabola in questione, infatti, non pone le fondamenta teologiche di una interpretazione di questo tipo per le sorti di quel servo spietato. Si dice infatti che quel re, giudicando severamente la condotta manifestata da quel servo con il suo fratello – al quale non ha condonato il debito di cento denari (cioè pochissimo in confronto al condono da lui ricevuto dal re stesso) – ne abbia disposto la consegna “agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto” (Mt 18,34). In pratica, ciò che era stato dimenticato per sempre dal re mediante l’iniziale condono, viene ora risvegliato e posto a dover essere minuziosamente pagato da parte di quel servo cattivo. L’assenza di perdono ad un fratello rinfocola i peccati che Dio aveva assolto come misura di giudizio contro chi compie questa assenza di perdono. E dove viene assolta questa giustizia? Non potendo tale compimento certo avvenire “nel regno dei Cieli”, che è il luogo dell’annullamento di qualsiasi debito con il re e della pace stabile con lui, e non potendo avvenire nemmeno all’inferno, poiché ivi, è vero, si pagano le colpe non perdonate da Dio, ma non esiste alcuna misura di tempo, che invece in questa parabola viene posta (“finché non gli avesse restituito tutto il dovuto”, dice il testo), ecco che la parabola stessa impone l’esistenza di una terza dimora, quella della purificazione debitoria, dalla quale “fin quando tutto non sarà stato purificato”, secondo giustizia perfetta, con il peso aggravante degli aguzzini (cioè dei demoni accusatori del debito con Dio), non si potrà uscire, né poter aver parte nel regno stesso.

Gesù conclude la sua parabola dicendo che “così farà il mio Padre celeste a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello” (Mt 18,35).

Il purgatorio, quindi, quale ambiente nel quale si deve attuare l’espiazione di un personale debito con Dio, diviene “evitabile” nella misura in cui, anche se oggettivamente quel debito non viene pagato a Dio direttamente, se ne indirizza il quantitativo ad un qualsiasi fratello in termini di amore e di perdono. Davvero, in tal senso, questa parabola ci insegna come “la carità copre una moltitudine di peccati” (1Pt 4,8), ed anche un enorme ed in se stesso insolubile debito con Dio può essere condonato mediante la carità al fratello. E tuttavia, dinanzi al rifiuto orgoglioso di quest’ultima soluzione di debito, esso si protrae inevitabilmente in tutte le sue conseguenze dinanzi a Dio, ossia nella necessità di una purificazione adeguata al debito stesso, in una contestualizzazione teologica di purgatorio e di purificazione della colpa ostinatamente lasciata tale.

Amen

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