“Cosa significa che Gesù non è venuto ad abolire la legge o i profeti – come scrive Matteo – ma a portare la legge a compimento?” – Meditazione serale alla Casa di Miriam del 10 marzo 2024:

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“Cosa significa che Gesù non è venuto ad abolire la legge o i profeti – come scrive Matteo – ma a portare la legge a compimento?” – Meditazione serale alla Casa di Miriam del 10 marzo 2024:

Siamo abituati a leggere – o a meditarlo quando viene letto come vangelo del giorno – questo passo di Matteo. Tuttavia forse non siamo pienamente consapevoli di quale insegnamento ci stia dando Gesù – mediante il suo Evangelista – con queste parole. Certo è che, nella sua libertà, sebbene ispirata, con cui l’Evangelista scrive, si percepisce un eccesso di “sintesi”, rispetto alla totalità del discorso di Gesù, che in alcuni elementi rende difficile la comprensione. Anzitutto: cosa intende Gesù quando parla qui della “legge”? Forse l’intero deposito della Legge di Mosè? Se così fosse, il discorso di Gesù dovrebbe essere stato molto più esteso, data l’estensione stessa della Legge di Mosè nella sua interezza. L’analisi del testo greco di Matteo ci può solo in parte facilitare la questione, anche se in modo importante e non trascurabile. Ciò che infatti traduciamo comunemente con “portare a compimento”, il greco lo dice con il verbo “πληρόω (pléroó)”, che più che un “compimento” (nel senso di “ultimazione”), sa qui di “completamento” di un qualcosa ancora soltanto relativo nella sua essenza. Non è questo, ad esempio, il verbo che Giovanni usa per dire “Tutto è compiuto”, in riferimento alle parole di Gesù morente sulla croce. Ivi è usato un altro verbo, “Tetelestai”, che significa appunto: “Dare una conclusione, un compimento”: la croce non è infatti “relatività completabile”, ma compiutezza del sacrificio del Salvatore.
Matteo, invece, usa qui il verbo “pléroó”, che dà più l’idea di “completezza” che non di “compimento”. Completezza implica una precedente incompletezza, la quale, se applicata alla legge suddetta, deve essere intesa come una “incompletezza di perfezione”, più che non di “necessità”. L’incompletezza di perfezione dipende non dalla legge stessa, di cui appunto Gesù dice che non muterà nemmeno un iota o un trattino, bensì dalla possibilità umana, da se stessa, di applicarla, essendo infatti la grazia – la grazia stessa di Cristo – il criterio “completante” la legge antica. Quale criterio, dunque, e quale legge? Il criterio è l’amore che Cristo appone alla legge, per condurla dallo stato di “legge necessaria” a quello di “legge perfetta”. Questo amore è Egli stesso a infonderlo, mediante il suo insegnamento e il dono stesso di sé. Ovvio che ciò non si può riferire – perché sarebbe vano – a tutta quella miscellanea di sovrapposti precetti che hanno costituito, in divenire, la legge antica. Si deve quindi intendere la legge, ci pare, in modo molto più semplice e chiaro, come cioè ciò che Dio stesso ha donato, ossia i dieci comandamenti. Forse che essi, dunque, mancassero di perfezione e di completezza? No, se intesi alla luce di Cristo; sì, se intesi unicamente secondo lo spirito del Dio del Sinai: ivi è il rigore di un ordine di giustizia a regnare, non l’amore della salvezza umana. Con la venuta di Gesù Cristo è invece l’amore a “completare” ciò che nella legge era dato solo in modo velato. In Cristo si “completa” questa legiferazione, la si perfeziona nella sua stessa applicabilità, poiché nei precetti l’amore viene sovrapposto ad ogni altra questione necessaria. Ama Dio, ama i tuoi nemici, ama chi ti perseguita, ama sempre. L’amore trascende il precetto stesso, divenendo esso stesso il continuum intrinseco a qualsiasi precetto di Dio. Amando, si compie la legge. E questa legge non è una esposizione di molteplici precetti, ma la “completezza” del Decalogo nella forma dell’amore che soltanto Cristo insegna. Amen

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