θεέ μου θεέ μου, ἱνατί με ἐγκατέλιπες;

θεέ μου θεέ μου, ἱνατί με ἐγκατέλιπες;  (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” – Mt 27,46; cfr. Sal 22,1)

Un versetto misterioso, sovraccarico di domande che sorgono proprio dentro questa stessa “domanda”, se così può essere definita, del Crocifisso al Padre celeste. Misterioso il fatto, ad esempio, che Matteo prima la riporti secondo l’accezione originale ( Ἡλεὶ Ἡλεὶ λεμὰ σαβαχθανεί;), poi intervenga narrativamente a chiarirne il significato (intrusione narrativa), a suo modo “traducendola”, ritenendone evidentemente poco chiara la comprensione per i suoi lettori, o forse volendo esplicitare così altri aspetti semantici che potrebbero introdurre più approfondite comprensioni.
Misterioso è pure il forte rimando letterario e teologico, che tuttavia uguaglianza perfetta non è, con il Salmo 22, al versetto primo. Lo stesso Matteo, che molto spesso introduce le proprie citazioni veterotestamentarie servendosi del solito schema: “Tutto questo avvenne perché si adempisse…” (cfr. Mt 1,22), qui non evoca affatto l’Antica Economia a livello esplicito-testuale. Né alcuno dei presenti alla scena, dentro la narrazione, afferma di cogliere le parole di quel Salmo dentro il grido di Gesù, tant’è che gli astanti sono descritti come fraintenderlo come grido rivolto ad Elia (cfr. 27,47).
Misterioso, soprattutto, rimane fino in fondo il senso teologico di queste parole. Chi parla a chi, veramente? Quale contenuto di verità viene ivi consegnato alla narrazione?
Conclusioni sommarie del tipo: è il grido dell’Uomo (cfr. Gv 19,5b) a Dio, la consegna di Gesù al Padre (cfr. Lc 23,46) ed altre simili rischiano di essere troppo “a buon mercato”, prescindendo dal rapporto contestuale in cui Matteo le inserisce, dal greco ivi utilizzato e da altri fattori linguistici e teologici (come appunto quel misterioso rapporo con il Salmo 22).
Un versetto misterioso, quindi, che probabilmente in ultima analisi rimarrà tale nonostante tutti i possibili approcci analitici: tuttavia profondamente eloquente, questo sì, in ordine alla nostra fede “da” credere. Credere che il terminale dell’opera del Figlio incarnato sia riferito al Padre e, contemporaneamente, alla Madre (Gv 19,25-27). Credere che il Figlio invochi il Padre quale estremo referente di chiarimento esistenziale; credere che da questa relazione paterno-filiale sorga il bene, la redenzione per l’uomo. Credere che ciò che l’uomo non comprende e che, a suo modo, confonde (cfr. Mt 27,47ss.) in realtà è compreso e approfondito dal Padre. Credere che tutto è nelle sue mani (cfr. Lc 23,46) e che nulla a lui sfugge, neppure le sorti del suo eletto (cfr. Lc 23,35)

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