Sulla povertà reale di san Giuseppe quando nacque Gesù

Sulla povertà reale di san Giuseppe quando nacque Gesù

Potrebbe essere un contenuto artistico raffigurante 2 persone

Come ogni anno in questo tempo, tutto a livello sociale, mediatico, commerciale, turistico e via dicendo “parla del Natale”. Molto di meno se ne parla, tuttavia, a livello religioso e, propriamente, cattolico. Ma che cosa si “augura” di buono, dicendo “Buon Natale”, se manca il soggetto che nasce e che è un soggetto divino? La stessa “pia” pratica di andare alla Messa di Mezzanotte – quando magari non si va a Messa durante tutto l’anno – può rivelarsi non solo “formale”, ma inutile e persino diabolica (data l’abitudine dei cenoni natalizi e della Messa subito dopo, a quell’ora così tarda).
Dire “Buon Natale”, in questa linea, non equivale nemmeno a un “Buona Domenica” – data la coincidenza di quest’anno della Domenica con il 25 dicembre – essendo anche la Domenica un giorno intenso di fede e a suo modo natalizio (l’evocazione della nuova nascita di Cristo).
Natale, in tal senso, dovrebbe echeggiare nella coscienza ciò che accadde più di due millenni fa a Betlemme, e che alcuni studi – anche esegetico-cattolici, purtroppo – stanno sempre più “demitizzando” anche nella sua verità storica. Uno degli esiti più infimi di questa “demitizzazione” è quello della povertà vera – sebbene fosse un lavoratore – di san Giuseppe al tempo della nascita di Gesù. Una povertà economica, non certo di fede, cosa che a parti inverse si rinviene oggi invece in una certa esegesi.
Giuseppe – stando a questi “dottori” – sarebbe stato un uomo tutto sommato benestante, che poteva spostarsi da Nazareth a Betlemme con soluzioni economiche perlomeno agevoli; un Giuseppe, dicono ancora questi studiosi, che se a Betlemme andò a motivo del censimento, significa che qui dovesse avere quantomeno una abitazione sua propria (dunque non “una stalla”, come dicono secondo loro “quelli senza cultura”). Figuriamoci poi la storiella dell’asino e del bue. E lo stesso Gesù sarebbe cresciuto in una famiglia che – forse non ricca (dicono ancora) – aveva tuttavia sufficienti risorse per andare avanti con prosperità, potendo scendere ogni anno a Gerusalemme per la Pasqua. E alcuni più “coraggiosi” nella contestazione, giungono a dire che forse Giuseppe non fosse nemmeno di Nazareth, a meno che uno dei due, fra Matteo e Luca, non si sia sbagliato nel racconto della prima infanzia di Gesù.
Ci si dimentica che l’amore muove il cuore dei puri a gesta incommensurabili per chi è abituato al benessere. E Giuseppe seppe rinunciare a se stesso per amore di Gesù – che adorò dalla nascita come Dio e crebbe come un figlio – e anche per amore della sua sposa, Maria, lasciando che sebbene difficoltosa da accettare, la sua fatica di lavoratore rasentasse il fondo del fallimento economico, a motivo dei travagli, degli spostamenti e delle persecuzioni che dalla nascita ai primi anni di vita, insediarono l’esistenza umana del Salvatore. Chi racconta in senso stretto della nascita in una “stalla”, è quello stesso evangelista che, nel suo elenco delle Beatitudini, taglia corto dicendo: “Beati i poveri” (senza specificazioni come Matteo) e “Guai a voi, ricchi!”, cosa che sorprenderebbe alquanto se poi anche Gesù e il suo padre putativo lo fossero stati.
Altra cosa è il riconoscimento della divina provvidenza (un mio professore esegeta, al tempo del mio studentato teologico, negava l’applicazione possibile di questo termine a Dio in quanto “non biblico”) nella difficoltà più acerba; una provvidenza che, seppure con molta fatica, ti permette di andare avanti, anche economicamente. Quando Matteo ci dice che i Magi portarono, fra i vari doni a Gesù bambino, anche dell’oro, significa che Dio stesso pose nelle mani dei genitori di Gesù la possibilità di un sostentamento in vista del tempo di fuga in Egitto, dove molto difficilmente Giuseppe avrebbe potuto svolgere la sua professione. E se Luca ci dice che i primi a far visita a “Colui che è nato”, in Betlemme, furono dei pastori, implica che almeno da essi, in prima istanza, Maria e Giuseppe ricevettero un sostegno anche economico e alimentare per le loro difficoltose condizioni.
In quanto al viaggio di ogni anno a Gerusalemme della santa Famiglia, esso non attesta affatto una “possibilità economica”, ma semmai uno zelo teologico che la trascende, e che fa superare, per l’ossequio alla tradizione religiosa, ogni possibile difficoltà, sia essa economica, logistica o di altra natura. Se duemila anni fa non si è trovato un posto nell’albergo (o nella “locanda”, come gli esperti vogliono puntualizzare traducendo il greco di Luca) per il Salvatore atteso – e se Giuseppe ha dovuto fare di necessità virtù, cercando un luogo, fosse pure un pagliaio, dove questo Benedetto Bambino potesse nascere con un minimo di dignità – non ci deve stupire che oggi quello stesso Salvatore non trovi un posto dove nascere in certi cuori umani, soprattutto quelli dei sapienti di questo mondo, che a volte sono molto peggio dei pagliai. Colui infatti che “lascia il Cielo” per assumere una condizione carnale simile alla nostra, è già teologicamente il Povero per eccellenza. Chi mai infatti può pensare questo mistero che san Paolo canta nel suo inno ai Filippesi (e che ovviamente alcuni esegeti “contestano” come scritto da Paolo)? Colui che pur essendo Verbo divino, eterno, uguale al Padre secondo la natura, “impara l’obbedienza” dalle cose che umanamente patisce (cominciando dalla stessa Incarnazione) e che la lettera agli Ebrei esplicita dicendo: “Egli, in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce… e che ha sopportato una così grande ostilità dei peccatori” (Eb 12,2-3), non è forse la Rivelazione stessa del valore della povertà dinanzi agli occhi di Dio? Una povertà, tuttavia, offerta a Dio stesso e non fine a se stessa; non il frutto di una dispersione delle risorse (cf. Lc 11,23), ma una situazione di necessità che non dipende da se stessi e che si accetta e che anzi si benedice come possibilità di espiazione.
Come si può dunque pensare ad un Giuseppe al modo di un “borghesotto”? Come immaginare il Figlio di Dio che viene nel mondo – e che fa tremare i demoni con questa nascita – come circondato di cose materiali, di serenità e di benessere? Non lo ha forse sua madre fasciato abbastanza, perché noi dobbiamo ancora fasciare la meraviglia di quella sua così salvifica povertà umana, per mezzo della quale il Salvatore si manifesta alle nazioni (simboleggiate dai Magi) con le mani legate? Allo stesso modo in cui morendo, mediante quel Titolo sulla croce, si mostrerà alle nazioni con le mani inchiodate.
Cosa significa, dunque, “Buon Natale” secondo il mondo?
Solo il Vangelo, infatti, dà senso al Natale.
Amen

F. G. Silletta
Edizioni e Libreria Cattolica La Casa di Miriam
Piazza del Monastero 3 – 10146 – Torino

 

 

Pubblicato da lacasadimiriam

La Casa di Miriam è un centro editoriale cattolico ed un cenacolo di preghiera operativo 24h