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Commento al “Comunicato” del Dicastero per la Dottrina della Fede circa gli scritti di Maria Valtorta del 22 febbraio 2025 – di Francesco Gastone Silletta***
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Indice:
- La bocciatura del soprannaturale dell’opera valtortiana conduce ad un intendimento innaturale della stessa (p. 5)
- La retorica “indietrista” nell’equiparazione delle ispirazioni valtortiane a delle mere “forme letterarie” usate dall’autrice (p. 6)
- L’evento biblico della morte di Abimèlech (cf. Gc 9,54) come simbolo di una valutazione qualunquista dell’opera valtortiana (p. 7)
- Non una “forma letteraria”, ma una teologia “pluriforme” è il “naturale” che svela il soprannaturale valtortiano (p. 8)
- Maria Valtorta e la teologia pluriforme “impressa” nella sua opera (p. 9)
Il Commento:
- La bocciatura del soprannaturale dell’opera valtortiana conduce ad un intendimento innaturale della stessa
Un estratto dal “Comunicato” del Dicastero per la Dottrina della Fede:
“[…] Si ribadisce che presunte visioni, rivelazioni e comunicazioni contenute negli scritti di Maria Valtorta, o comunque ad essi attribuite, non possono essere ritenute di origine soprannaturale, ma devono essere considerate semplicemente forme letterarie di cui si è servita l’Autrice per narrare, a modo suo, la vita di Gesù Cristo […] ”
Dell’intero comunicato che il Dicastero per la dottrina della fede, relativamente alla natura degli scritti valtortiani, ha pubblicato lo scorso 22 febbraio 2025, abbiamo qui scelto di commentare la sua parte “nucleica”, che sebbene il comunicato stesso consti di sole nove righe complessive, dà in quattro righe il senso fondamentale di quanto in esso affermato e, di fatto, rivela che cosa pensi – non però su quali basi teologiche lo pensi – il Dicastero stesso a riguardo dell’opera valtortiana. In questa comunicazione, non è tanto l’affermazione di una inconsistenza soprannaturale degli scritti valtortiani a creare stupore nel lettore. Il riconoscimento soprannaturale di un’opera come quella valtortiana, che si estende per migliaia di pagine di quaderno, affrontando tematiche attinenti non solo alla vita di Gesù Cristo – come spesso erroneamente si pensa – ma all’intera storia della salvezza, presupporrebbe una perfetta conoscenza previa del “naturale” valtortiano – poiché ogni conoscenza del più grande, presuppone quella del più piccolo e così è della conoscenza “soprannaturale” di un qualsiasi ente rispetto a quella “naturale”. In un certo senso, a livello puramente scritturistico, il concetto teologico secondo cui “la grazia presuppone la natura”, vale anche per gli scritti valtortiani, non dissociabili, nella loro tensione soprannaturale, dall’humus naturale entro cui non solo l’opera, ma anche la stessa autrice, devono previamente essere contestualizzati. Questa conoscenza del quid “naturale” – che presupporrebbe l’identità soprannaturale – dell’opera della Valtorta, sembra rivelarsi insufficiente e con dei parametri soltanto minimali nella coscienza di chi ha redatto il “Comunicato” del Dicastero, e quindi risulta ipso-facto impedente una comprensione soprannaturale di ciò che emerge dall’economia valtortiana. Se le basi noetiche, storiche, teologiche ed ermeneutiche con cui ci si approccia agli scritti valtortiani sono minimali nella conoscenza naturale di chi li studia o è deputato a valutarli, ne consegue non solo l’impossibilità di uno sbocco trascendente, che possa confluire in un riconoscimento soprannaturale dell’opera, ma ancor peggio la stagnazione in un qualunquismo interpretativo della stessa, che non possedendo i parametri “naturali” di un’indagine coerente e vera, e non potendo perciò elevarsi a una rilettura soprannaturale dell’opera, gozzoviglia nel “terzo escluso”, ovverosia un canone di giudizio “innaturale”, che non valorizza autenticamente né il naturale, né il soprannaturale dell’opera in oggetto. Nessuno stupore particolare, quindi, che il “Comunicato” del Dicastero non rinvenga alcunché di soprannaturale negli scritti valtortiani.
- La retorica “indietrista” nell’equiparazione delle ispirazioni valtortiane a delle mere “forme letterarie” usate dall’autrice
Uscendo dalla questione della soprannaturalità, il lettore del medesimo “Comunicato” può stupirsi laddove, nell’estratto citato in precedenza, la sostanza – nel senso essenzialista del termine – dell’opera valtortiana, venga recintata nel più che discutibile perimetro della “forma letteraria”.
Questa “reclusione” dell’esperienza mistica della Valtorta (che il “Comunicato” riassume parlando di presunte “visioni”, “rivelazioni” e “comunicazioni”) nel carcere esperienziale della “forma letteraria”, non è il frutto inevitabile di una retrocessione dal soprannaturale al naturale, bensì, come echeggiato in precedenza, l’esito di una tanto marginale conoscenza dell’economia valtortiana che non può che condurne la valutazione in un contesto “innaturale” di interpretazione. Questa innaturalità si manifesta regina laddove viene tecnicamente coinvolto quel sistema di osservazione della realtà – e la realtà in oggetto è qui quella dell’opera valtortiana – che palesa come in atto quell’indietrismo tanto scongiurato negli insegnamenti vari di Papa Francesco. Infatti, l’utilizzo della categoria della “forma letteraria” per giustificare il tentativo di espellere l’opera valtortiana da un contesto di appartenenza soprannaturale, ci fa tornare indietro nel tempo, sia a livello prossimo che remoto. A livello prossimo, pare riesumato quell’articolo anonimo del 1960 dell’Osservatore Romano, in cui l’opera della Valtorta veniva definita come “una vita di Gesù malamente romanzata”, sebbene, come rilevava il teologo Roschini[1], si specificava quantomeno che, essendo aggiornata ai massimi livelli di quel tempo, la teologia intrinseca all’opera pareva il frutto dell’occulto lavoro di un grande teologo. Molto più remota, invece, è l’eco che “la forma letteraria” – intesa qui ovviamente non in senso metafisico al modo dell’anima per il corpo, ma appunto in senso “letterario”, dunque accidentale, al modo di un “genere” o di una “unità” che darebbe “forma” all’universale dell’opera – possiede in se stessa, evocando i tempi passati, in cui alcuni grandi esegeti, ad esempio Bultmann, Von Rad, Noth ecc., analizzavano minuziosamente il testo biblico, cercando in esso delle “forme” che, unendosi tra loro e procedenti per fasi nella storia della composizione biblica, avrebbero poi dato origine ai testi ultimativi. Un esempio è l’idea che dalla “forma letteraria” del cosiddetto “piccolo credo” d’Israele (cf. Dt 6,20-4: “Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: Che significano queste istruzioni, queste norme e queste leggi che il Signore nostro Dio vi ha date?, ecc.; cf. anche 26,5-9: “Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero, ecc.”) dipenda una vasta interpretazione dell’esposizione del Deuteronomio[2].
Si capisce che l’opera valtortiana sorga in un contesto di ispirazione ben lungi da quello della “forma letteraria” intesa in tal maniera, che presuppone un volontario intento scritturistico sostenuto poi da successivi interventi “formali” di natura redazionale. Oltretutto, l’espulsione dall’ordine soprannaturale di quelle che il Dicastero chiama come “presunte visioni”, “rivelazioni” e “comunicazioni”, e il loro adeguamento alla tipologia delle “forme letterarie”, andrebbe allora con onestà sviscerato argomentativamente, specificando quali siano, di fatto, queste forme letterarie. Il Dicastero, in tal senso, nel suo “Comunicato” pare non considerare come colei che esso stesso definisce come “l’autrice”, ossia Maria Valtorta, non possa essere considerata tale secondo l’accezione comune del termine, come esso viene ad esempio usato per parlare del Manzoni. Nella composizione dei suoi scritti, infatti, la Valtorta non opera né secondo il principio di intenzionalità, né secondo quello di volontà di composizione scritturistica, essendo fortemente compromessa la sua salute per permetterle una simile scelta responsabile e volontaria. Nuovamente, nella fretta di voler eludere il “soprannaturale” non solo in quanto al contenuto, ma anche in quanto all’atto stesso di scrittura dell’opera, il “Comunicato” scivola in una “innaturale”, piuttosto che non “naturale”, comprensione della verità valtortiana. Un racconto biblico può ora aiutarci a transitare dall’ermeneutica della forma letteraria a quella teologica dell’opera valtortiana.
- L’evento biblico della morte di Abimèlech (cf. Gc 9,54) come simbolo di una valutazione qualunquista dell’opera valtortiana
Nel capitolo 9 del libro dei Giudici, si narrano le vicende e la relativa morte del rivoltoso e ribelle Abimèlech, il sichemita. Questi era uno dei tanti figli di Gedeone, che dopo la morte del padre, insorse e uccise “su una stessa pietra” i suoi 70 fratelli, con l’aiuto dei signori di Sichem, e salì così al potere in quella città. Dopo tre anni di violenza e potere, tuttavia, Dio punì dapprima i signori di Sichem, nella strage della torre di Sichem (Migdal-Sichem, cf. Gdc 9,46-49), quindi lo stesso prepotente Abimèlech, presso la torre di Tebes (cf. Ivi, 9,50-55). Mentre infatti cercava di dar fuoco alla torre, una donna da una finestra gli lanciò una macina sulla testa, rompendogli il cranio. Vedendosi morire, Abimèlech disse a un suo giovane compagno: “Tira fuori la spada e uccidimi, perché non si dica di me: Lo ha ucciso una donna” (Gdc 9,54).
Questo racconto, che gli esegeti sono concordi a ritenere storico, può essere da noi utilizzato simbolicamente in chiave valtortiana. Abimèlech, ad esempio, può simboleggiare quei potenti, di qualsiasi tipo, che osteggiano con arroganza la Verità. Egli ha ucciso 70 fratelli, tutti figli – come lui lo era – di un uomo di Dio, Gedeone. Ciò può simboleggiare la morte spirituale che questa azione arreca a tutti i fedeli che cercano la Verità. I signori di Sichem, prima alleati e poi nemici di Abimèlech, rappresentano simbolicamente le persone importanti che si schierano incoscientemente contro la Verità ed eleggono “re” chi la osteggia. La torre di Tebes, può simboleggiare il luogo fisico in cui la Verità ha il suo deposito ed è custodita. E da quel luogo una donna, che può simboleggiare qui Maria Valtorta, lancia giù contro Abimèlech una macina, che può simboleggiare la sua opera, e con quella lo vince. Non volendo morire ucciso da una donna, poiché orgoglioso e pieno di sé, Abimèlech chiede a un giovane di colpirlo con una spada: questa spada, che uccide Abimèlech, può qui simboleggiare quella “forma letteraria” di cui si è parlato sopra. Come si vede, la “forma letteraria” non è al servizio della Verità, ma una rimedio improvvisato da chi, come Abimèlech, colpito dalla macina (l’opera valtortiana), non sopporta che una donna (la stessa Valtorta), possa difendere la Verità e averla vinta su di lui.
- Non una “forma letteraria”, ma una teologia “pluriforme” è il “naturale” che svela il soprannaturale valtortiano
Si è riscontrato sin qui come la categoria della “forma letteraria” sia del tutto insufficiente e inadeguata ad escludere l’opera valtortiana da un ordine soprannaturale di appartenenza. Voler ridurre il quid valtortiano a una forma letteraria conduce, come abbiamo simbolicamente enfatizzato, all’esito della spada di Abimèlech. Ciò non implica, tuttavia, che non sussista una via “naturale” che possa condurre – con il suo naturale statuto – ad un riconoscimento soprannaturale dell’opera suddetta. Una via “naturale” che si possa “evincere” come tale[3] alla luce di presupposti oggettivi e verificabili e per questo non solo non imponibili di accuse relative a fantasie immaginative o a illusorie rivelazioni soprannaturali, ma necessariamente acquisibili nell’esperienza della conoscenza naturale. Questa via “naturale”, nell’opera della Valtorta, è la via teologica. Fingere che non esista una teologia valtortiana di natura sistematica, complessa e pluriforme, studiando la quale non solo si dischiudono molte limitazioni teologiche attuali, ma si vive anche una più intensa conoscenza della storia della salvezza, non può essere accettato nello stesso ambito della teologia scientifica. Il fatto, poi, che questa teologia valtortiana comunichi e sveli un soprannaturale intervento nella sua origine, nel suo sviluppo, nella sua esposizione, lo si evince[4] ancora da elementi del tutto “naturali”, relativi a quella medesima autrice, Maria Valtorta, che secondo il suddetto “Comunicato” del Dicastero si sarebbe servita di alcune “forme letterarie” per narrare la vita di Gesù Cristo a suo personale intendimento. Infatti, se si osserva “la natura” della preparazione teologica della Valtorta, si rimane totalmente basiti nel constatare che ella non possieda alcuno studio, né preparazione, né competenza teologica che possano giustificare “naturalmente” una simile teologia da lei stessa elaborata. Vediamo dunque – in modo assolutamente approssimativo – che tipo di elementi teologici emergano con una focalizzazione analitica “naturale” dell’opera valtortiana e che cosa possa poi rendere inevitabile il ricorso al soprannaturale che ne giustifichi l’istituzione e la stesura.
- Maria Valtorta e la teologia pluriforme “impressa” nella sua opera
A livello critico d’insieme, l’opera valtortiana sviscera e “difende” (termine che evoca la “difesa” di una tesi dottorale) molti e distinti ordini del sapere teologico scientifico, non sempre allo stesso modo espositivo e con la stessa intensità argomentativa. I primi tre “quadri” teologici, li ho direttamente esplicitati e ampiamente analizzati io stesso in tre opere di natura teologica. Essi corrispondono a tre differenti teologie:
Essendo già state commentate in tre corrispettive pubblicazioni, queste tre “teologie” ricevono ora qui, da parte mia, solo una fugace illustrazione. La teologia della fede, ad esempio, corrisponde al quid teologico che, servendosi di un complesso rapporto tra personaggi ed eventi, la Valtorta elabora giungendo sostanzialmente a una definizione di fede che è la seguente[8]: “La fede è possibilità di salvezza nella triniforme unità dell’obbedienza”. Spiegata qui per sommi capi e rimandando all’opera in oggetto per gli approfondimenti, la fede è valtortianamente descritta come una “possibilità”, non come un’imposizione, e una possibilità di salvezza. Non “una possibilità” nel senso che ve ne siano altre, ma perché non essendoci coercizione, questa possibilità può scemare nel nulla. L’obbedienza è quella virtù che salda la fede, in tre distinte forme di specificazione. Essa le tiene unite insieme (ora le esplicitiamo qui di seguito) e se l’obbedienza – dice la Valtorta – non fa parte né delle virtù teologali, né di quelle cardinali, è solo perché è presente in tutte queste. Le tre forme dell’unità obbedienziale sono quelle della conoscenza, della fiducia e dell’adesione a Cristo[9]. Si intuisce come la fede valtortianamente intesa non sia un’astratta concezione, ma un supposto teologico ben determinato. Con la stessa brevità esplicativa, illustriamo qui la seconda delle teologie valtortiane di cui ho redatto una pubblicazione, ossia quella trinitaria. La Valtorta è sorprendente nella sua idea – simile e insieme molto distinta da quella, ad es., di Barth e soprattutto Jüngel – di Dio come “essere nel divenire”. La stessa idea esplicitata dalla Valtorta del “Pensiero che ‘diventa’ Parola”[10], rispecchia questo dinamismo immanente alla Trinità. Come osservava già il citato Jüngel, essendo “immanente”, questo “divenire” può pensarsi come oggettivo “in” Dio, non così invece se fosse un divenire “di” Dio. Va detto inoltre che, mentre i grandi teologi trinitari della storia[11], nel parlare del mistero trinitario si sono espressi e volti ad esso in termini da me definiti “esclusivisti”, nel senso di una teologia mirata e unidirezionale in senso trinitario, all’opposto la Valtorta non si è espressa trinitariamente in tal modo, poiché la sua teologia trinitaria “emerge”, cioè “si evince da”[12] altre fondamenta teologiche che poi – molto “misteriosamente” – convergono e fluiscono in argomentazioni trinitarie[13]. La terza e ultima delle teologie valtortiane di cui ho redatto una pubblicazione specifica, a cui rimando per eventuale approfondimento, è la teologia dei segni[14]. Se moltissimi sono i segni compiuti da Gesù – e vastissima è la loro eco espositiva nell’opera della Valtorta – non immediatamente intuibile, e per questo bisognosa di un’argomentazione, è la loro comprensione teologica. Nella Valtorta, il segno mantiene l’accezione immediata di realtà che rimanda ad altro da sé, e tuttavia non è – come invece affermano alcuni commentatori dei Vangeli – un ente che sostituisce e abroga il miracolo, poiché, lo si vede nella Valtorta, il miracolo, più piccolo ontologicamente del segno (a sua volta più piccolo del simbolo), è comunque sempre parte integrante, non oppositiva, del segno stesso. Se ad esempio l’Evangelista Giovanni preferisce parlare di segni, piuttosto che di miracoli, è perché intende questi ultimi come espresso dalla Valtorta, cioè parte intrinseca ai segni stessi.
Vi sono poi, come detto in precedenza, altre teologie, nell’opera valtortiana che né io, né alcun altro teologo, ha sinora analizzato in uno studio scientifico e che per la loro mole sorprendono il lettore e insieme non giustificano la possibilità “naturale” dell’ispirazione della Valtorta, priva, come tutti sanno, dei più elementari studi teologici. Una di queste è la teologia dell’ebraismo (quantomeno, l’ebraismo al tempo di Gesù). Ciò che l’Evangelista Luca soltanto accenna nel suo Vangelo, cioè del giovane Gesù ritrovato a interloquire con i dottori del Tempio, viene dalla Valtorta ampiamente argomentato, entrando sin nei più minuziosi dettagli di quell’esperienza. La Valtorta conosce e riferisce sia il pensiero di Hillel, grande Rabbì d’Israele al tempo dell’infanzia di Gesù, sia quello di Shammai, altro grande Rabbì e avversario dialettico di Gesù in quella disquisizione al Tempio. Tra loro, e a sostegno di Hillel, c’è anche il giovane Gamaliele. Inoltre, la Valtorta mostra di conoscere il Midrash e l’Haggadah, parlandone ampiamente nel racconto dell’esame di Gesù maggiorenne al Tempio, nonché conosce tutte le principali festività e tradizioni religiose ebraiche, in modo speciale, ad esempio, la festa delle Encenie, con relativo riferimento alle rispettive origini in seno alla tradizione ebraica.
Vi è poi, ancora, una quinta, possibile, teologia valtortiana che emerge dalla sua opera e che potrebbe essere analizzata scientificamente, ossia la teologia della volontà. Spesso, infatti, la volontà umana è chiamata in causa da lei come differenziale teologico per l’ottenimento della divina compiacenza. Partendo da una sostanziale distinzione tra l’Io spirituale e l’Io carnale, la Valtorta esalta la volontà umana come adeguazione perfetta all’Io spirituale che governa quello carnale. Conosce, per esempio, la necessità di studiare la volontà umana di Gesù nel suo atto continuo di rinuncia alle tentazioni e di perfetta obbedienza al Padre, impedendo quindi che si parli di un’impossibilità tout-court di Gesù rispetto al fallimento morale: “È la volontà buona o non buona quella che dà peso all’azione”, scrive nell’Evangelo, Vol. 7., Cap.475. Allo stesso modo, descrivendo teologicamente la volontà di Maria, distingue nettamente ciò che è opera di Dio in lei, come l’immacolato suo concepimento – che non le dà alcun merito personale – da tutto ciò che invece dipende fenomenologicamente da un continuo atto di volontà di Maria rispetto all’adeguazione al volere divino e alla rinuncia al peccato. Lo stesso Giuseppe, suo sposo, viene descritto secondo una volontà umana dinamica, che seppur totalmente umana, non si è mai dissociata dalla luce della grazia. Su questa linea di principio, la Valtorta afferma una distinzione nel compimento delle guarigioni ad opera di Gesù, il cui differenziale è ancora quello volitivo: se le guarigioni dalle malattie corporali dipendono, nel loro attuarsi, dalla volontà di Dio, quelle spirituali risentono della compartecipazione della volontà umana per concretizzarsi, e per questo non sempre si compiono.
Più sorprendente ancora della teologia della volontà, è nella Valtorta la teologia biblica, anzitutto per l’incredibile conoscenza che la Valtorta stessa, nei suoi scritti, manifesta dell’Antico Testamento. Il teologo Roschini ha pubblicato un’opera[15] in cui testimonia come tutti i 46 testi dell’Antico Testamento – direttamente o indirettamente – siano citati nell’opera valtortiana. Ciò che stupisce, non è solo la possibilità di una così specifica conoscenza degli eventi, dei personaggi e della teologia veterotestamentaria che la Valtorta manifesta di avere, ma la sua capacità di riferirli a Gesù, di citarli e farli commentare da lui stesso nella sua opera. Possiamo qui di seguito portare alcuni esempi, poiché l’intera esposizione meriterebbe un’opera a parte. La Valtorta, ad esempio, mostra di conoscere molto bene la storia personale – non soltanto il libro – del profeta Geremia. Nel volume 6, al capitolo 432 dell’opera “L’Evangelo come mi è stato rivelato” (di seguito, l’Evangelo), cita l’episodio in cui il re di Giuda Ioiachim brucia il rotolo che Geremia, per mezzo di Baruc, aveva scritto per lui. Gesù, nell’opera valtortiana, evoca questo evento e dice che Dio ne volle la rescrizione, poiché Dio non permette che si annulli ciò che è opera di amore: così Gesù, come fosse lui stesso quel volume distrutto, dice che Dio non lascerà nessuno senza l’aiuto di “altri volumi”, nei quali saranno contenute le sue parole. Come si vede, quella della Valtorta non è solo una citazione di un fatto dell’Antico Testamento, ma una sua contestualizzazione nella vita di Gesù. Un’altra evocazione veterotestamentaria, la Valtorta la pone nel Volume 7, al Capitolo 483 del suo “Evangelo”, dove manifesta di conoscere alcune abitudini dei samaritani, come ad esempio l’abbondanza di cani, o gli asini alti quasi come un cavallo. E soprattutto la loro ospitalità: dice la Valtorta, a tal riguardo, che Gesù ha esposto la parabola del “buon samaritano” perché attinente alle attitudini samaritane verso chi è bisognoso di aiuto. Anche in questo caso non si limita all’evocazione dell’Antico Testamento, ma lo relaziona a Gesù e alla sua predicazione. Nello stesso Volume 7, la Valtorta si muove totalmente altrove con le reminiscenze bibliche: ella sa che presso la pietra di Zoelet, presso la fontana di En Rogel, Adonia, figlio del re Davide, cospirò contro suo padre e si fece proclamare re. Gesù, nell’opera valtortiana, usa quest’immagine per dire che troppi in Israele combattono il vero Re. Lo stesso Gesù svela poi che presso En Rogel i Magi sostarono quando non videro più la stella, notizia niente affatto reperibile dalla Valtorta nei Vangeli, non essendo ivi esposta. Nel Volume 8, al Capitolo 505, la Valtorta si muove ancora dall’Antico al Nuovo Testamento con parallelismi e tipologie. Ella sa che nel Deuteronomio è scritto che i giudici devono essere equanimi nell’ascoltare chi ricorre a loro, senza tener conto di donativi o minacce. A questa citazione del Deuteronomio, secondo lei, è ispirata la parabola del giudice iniquo e della vedova insistente che Gesù insegna nel Tempio. Ancora più sorprendente è la conoscenza che la Valtorta ha di Tobia. Nel suo “Evangelo” (Vol. 8, C. 511), la Valtorta fa dire a Gesù che il cantico di Tobia su Gerusalemme (citato per esteso: “Tu brillerai di luce splendida […]. Tutti i popoli della terra si prostreranno a te […]. Le nazioni verranno a te da lontano portando doni, ecc.”, va applicato a Maria e non a Gerusalemme, poiché quest’ultima non ha un Tabernacolo in cui sia Dio, essendoci il peccato nel Tempio. E ancora, nel suo “Evangelo” (Vol. 8, C. 548), la Valtorta cita l’Antico Testamento, in un contesto nel quale Gesù si trova presso Beteron, città sacerdotale, e parla agli abitanti del profeta Abdia, esortando i cittadini a meditarne il rotolo, dicendo: “Non vi accada come ad Edom, che esultò per la disfatta d’Israele”.
La Valtorta, poi, mostra una specifica e inattesa conoscenza della città di Gabaon, che descrive nei dettagli. Sa che lì vi andò Salomone, quando era divenuto re e vi offrì grande sacrificio di ostie. Lì Dio gli apparve in sogno e gli disse: “Chiedimi ciò che vuoi”. E chiese la sapienza. Questo nel Vol. 8, C. 516, del suo Evangelo. Un ulteriore collegamento tra l’Antico e il Nuovo Testamento – con temi che andrebbero teologicamente studiati in un’opera specifica – è quello in cui la Valtorta cita il profeta Eliseo e, come sempre fa, relaziona l’oggetto della sua citazione a Gesù e all’attualità del suo insegnamento. Nell’opera “L’Evangelo” (Vol. 8, C. 554), Gesù evoca il re d’Israele, con quello di Edom e di Giuda, quando si rivolsero a Eliseo per difesa da quelli di Moab. Eliseo disse al re d’Israele che se non fosse stato per Giosafat, re di Giuda, nemmeno l’avrebbe guardato in faccia. Poi con il suono dell’arpa ricevette ispirazione profetica e disse di far scavare molte fosse d’acqua nel torrente asciutto, perché ivi bevessero uomini e bestie. E una volta fatto, il torrente si riempì d’acqua. Gesù usa l’evocazione di questo episodio dopo aver cantato dei Salmi con i suoi Apostoli (memoria delle arpe che ispirarono la profezia di Eliseo), esortando questi ultimi a costruire fosse di sapienza. Nel Volume 9 della stessa opera, al Capitolo 556, la Valtorta applica invece un’immagine tratta dalla storia di Esdra e dal ricordo delle tappe lente della ricostruzione del Tempio e dell’ostruzione dei samaritani a ciò. Gesù ne parla dicendo che Dio vuole un Tempio di spirito e non di mura e che la mancanza di amore reciproco è sempre causa di ritardo o disturbo. E come allora c’era chi piangeva pensando all’antico Tempio di Salomone, anche ora, dice Gesù, c’è chi piange mentre invece dovrebbe rallegrarsi che si sta costruendo il nuovo Tempio su fondamenta eterne.
Come si vede, dal punto di vista teologico-biblico, la Valtorta sembra possedere delle competenze tali da saper connettere con acume teologico la sua misteriosa conoscenza dell’Antico Testamento alle situazioni contingenti dell’insegnamento di Gesù. Il caso forse più eclatante, in tal senso, è quello di un’intera parafrasi del libro di Abacuc che la Valtorta espone raccontando una esposizione di Gesù, disturbata dall’intervento di alcuni scribi e farisei. Gesù applica alla sua propria ora la profezia di Abacuc (“Avverrà una cosa che a raccontarla non sarebbe creduta”) e la “scadenza temporale”, cioè quel “termine” che Dio stesso promette all’esagitato Abacuc, che grida a Dio il suo mal contento per il suo apparente silenzio.
Sono solo alcune, quelle elencate, delle molteplici “situazioni veterotestamentarie” che emergono nell’opera valtortiana e che non solo esplicitano in sé gli eventi veterotestamentari (come l’incredibile interpretazione valtortiana ad alcune profezie di Ezechiele e soprattutto di Daniele), ma rendono più agevole, con la loro menzione, gli stessi fatti del Nuovo Testamento.
Ora, ci si domanda se sia possibile ridurre tutto questo deposito di conoscenza teologica valtortiana – tanto utile anche in chiave spirituale – a una “forma letteraria”, senza evocazioni soprannaturali che la trascendano immensamente e giustifichino una simile mole di informazioni che la Valtorta – e come lei nessun eventuale e mai dimostrabile “teologo” che lavorasse per lei – poteva avere a livello privato.
*** Francesco Gastone Silletta è Dottore in Teologia Dogmatica, titolo conseguito nel 2014 presso la Pontificia Università della Santa Croce (Roma), con una tesi intitolata: “Il Discepolo Amato come personaggio in migrazione. Una rilettura materno-filiale dell’essere amato” –
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Note:
[1] Cf. Roschini G., La Madonna negli scritti di Maria Valtorta, CEV, Isola del Liri (Fr) 1973, p. 26s.
[2] Cf. ad es. Von Rad G., Teologia dell’Antico Testamento, 2 Voll. (tit. or. Theologie des Alten Testaments, 4ª ed. 1962), qui Vol. 1, ed. it. a cura di Bellincioni M., Paideia, Brescia 1972, pp. 149ss.
[3] L’espressione “evincere un tema, una disciplina, un pensiero o altro di soprannaturale a partire da presupposti oggettivi naturali”, è stata da me ampiamente utilizzata nel descrivere come – negli scritti valtortiani – esista una teologia trinitaria che “si evince da” presupposti teologici soggiacenti all’argomentazione valtortiana e del tutto “naturali” secondo la loro ispirazione, ma che rimandano ad un Oltre soprannaturale che illumina e sviluppa quella stessa teologia. Cf. su questo Silletta F.G., Il Pensiero che diventa parola. Teologia trinitaria alla luce degli scritti di Maria Valtorta, Edizioni La Casa di Miriam Torino 2023, passim.
[4] Cf. per l’uso di questo termine la nota precedente.
[5] Cf. Silletta F.G., La fede languente. Teologia della fede alla luce degli scritti di Maria Valtorta, Edizioni La Casa di Miriam, Torino 2023.
[6] Cf. Silletta F.G., Il Pensiero che diventa parola. Teologia trinitaria alla luce degli scritti di Maria Valtorta, Edizioni La Casa di Miriam, Torino 2023.
[7] Cf. Silletta F.G., Riempite d’acqua le giare (Gv 2,7). Teologia dei segni alla luce degli scritti di Maria Valtorta, Edizioni La Casa di Miriam, Torino 2025.
[8] Definizione che io ho elaborato con il contributo del mio linguaggio personale, ma che, come ho scritto nell’opera citata sopra nella nota n. 5, ho tratto dal discorso teologico valtortiano integralmente inteso.
[9] Per gli approfondimenti teologici su questo tema e per vedere in quali punti dell’opera valtortiana esso viene trattato, si cf. l’opera citata sopra, La fede languente. Teologia della fede alla luce degli scritti di Maria Valtorta.
[10] Concetto che ha originato il titolo della mia pubblicazione sulla Teologia trinitaria valtortiana, citato sopra nella nota n. 6.
[11] Li ho passati in rassegna, con una sintesi del loro pensiero, nell’opera citata nella nota n. 6.
[12] Cf. per questo termine la nota n. 3.
[13] Anche in questo caso, per gli approfondimenti teologici su questo tema e per vedere in quali punti dell’opera valtortiana esso viene trattato, rimando al mio studio già citato, Il Pensiero che diventa parola. Teologia trinitaria alla luce degli scritti di Maria Valtorta.
[14] Cf. il già citato testo Riempite d’acqua le giare (Gv 2,7). Teologia dei segni alla luce degli scritti di Maria Valtorta.
[15] L’opera è quella citata supra, nota n. 1.
Francesco Gastone Silletta (1980) è dottore in Teologia Dogmatica, titolo conseguito presso la Pontificia Università della Santa Croce (Roma). Il 5 giugno 2014 ha discusso la tesi dottorale intitolata “Il Discepolo Amato come personaggio in migrazione. Una rilettura materno-filiale dell’essere amato”. Nel 2007 ha conseguito la Laurea in Scienze Religiose (ISSRA – Roma) con una tesi intitolata: “La differenziazione sessuata maschio-femmina nella Teologia del corpo di Giovanni Paolo II”.
Dopo una lunga permanenza a Medjugorje, nel 2010, ha mutato l’interesse della propria ricerca teologica ma anche il proprio approccio confessionale al cattolicesimo, orientandosi verso una comprensione intellettuale ed un’adesione confessionale di ordine materno-filiale rispetto all’economia cristiana.
Il 2 febbraio del 2012, scegliendo di ritornare nella sua città natale (Torino), ha fondato il gruppo di preghiera e di solidarietà sociale “La Casa di Miriam Torino”. Dal momento della sua fondazione, sino ad oggi, questo gruppo mensilmente si riunisce in Chiesa, per un’ora di intensa preghiera e meditazione biblica.
Il gruppo ha anche organizzato un progetto permanente di solidarietà sociale per sostenere le esigenze delle persone indigenti, denominato “Social Charity”.
Il 19 settembre del 2014, dopo due anni di approfondimento mariologico, ha costituito le “Edizioni La Casa di Miriam”, orientate alla valorizzazione della cultura cattolica ed alla diffusione della letteratura teologica.
L’enfasi del suo approfondimento teologico, tuttavia, sorge in lui dall’incontro con i testi di Maria Valtorta, nei quali rinviene una vera articolazione teologica – e dunque non solo un insieme di contenuti rivelati – complessa ed elevata. Ciò lo conduce alla fondazione, nel febbraio del 2024, del CIPREL (Centro Internazionale di Preghiera Laicale), ispirato agli scritti della Valtorta, che si riunisce ogni terza domenica del mese nella Chiesa di San Benedetto a Torino.
Con le Edizioni La Casa di Miriam ha pubblicato attualmente 38 pubblicazioni teologiche e spirituali e alcuni opuscoli di preghiera e di meditazione cattolica. Tra i titoli ricordiamo qui: “Guarire con Maria – Itinerario di preghiera per una guarigione interiore” (2015); “Amato perché amante. Il Discepolo Amato come personaggio in migrazione” (Tesi dottorale in Teologia dogmatica, 2015); “Elia, il profeta migrante” (2015). I titoli si sono poi susseguiti nel tempo: “Corso di Mariologia dell’intuizione. Dal dogma all’esistenza” (2018); “L’essenza del Cristianesimo in Romano Guardini” (2018); poi ancora “Meditazioni sulla fede”, “Attirami, noi correremo. Tratti esistenziali di 13 sante”, “Il Santo Rosario: contemplazione e mistero” (in 3 volumi), “Liberaci dal male. Preghiere di liberazione” (in 4 volumi); “Locuzioni interiori notturne” (in 4 volumi); “Medjugorje: tutti i messaggi. Con introduzione al concetto di rivelazione privata”; “Getsemani. Il giardino che appassendo al peccato, fiorisce alla grazia”; “Ragione creatrice, libertà e linea oscura del male. Estratti testuali dall’insegnamento di Joseph Ratzinger”.
Per la direzione del cenacolo, ha poi composto molte novene: “Novena a San Francesco di Sales”; “Novena alla Nostra Signora di Lourdes”; “Novena a Santa Maria Maddalena per la liberazione dalle ossessioni”; “Novena alla Vergine della Rivelazione”; “Novena a San Giuseppe”, Novena alla B.V. Maria Assunta in Cielo, “Novena del Santo Natale, “Novena a San Bonaventura”.
Ha poi pubblicato la “Lettera di San Giacomo. Linee di ermeneutica della comunicazione” e il testo di divulgazione “Leone XIII. La teologia, il pensiero sociale e l’esorcismo”
In modo speciale, negli ultimi due anni si è dedicato alla TEOLOGIA ALLA LUCE DEGLI SCRITTI DI MARIA VALTORTA. In tal senso, ha pubblicato nel 2023 il testo “La fede languente. Teologia della fede alla luce degli scritti di Maria Valtorta”, e sempre nel 2023 “Il Pensiero che diventa Parola. Teologia Trinitaria alla luce degli scritti di Maria Valtorta”.
Come editore, ha curato l’opera di Luigino Vador, “Gioia Luminosa”, in pubblicazione dal 7 gennaio 2016; ha pubblicato la storia vera di conversione di Vincenzo Ferrari, “Petali di una camelia. Storia vera di un convertito” (2017); l’opera autobiografica di Elsa Bertilla Sinico, “Meditazioni con Filotea”, i sette volumi della poetessa biellese Gabriella Mantovani, con conclusiva “Antologia”. Recentemente ha introdotto ed edito il libro di Lino Morato, “Medjugorje: verso il mondo nuovo di Dio” e quello autobiografico del sacerdote passionista Agustinus K. Ritan, “Racconto di un passionista missionario in Indonesia”.
Nel 2020, il primo giorno di Settembre, ha fondato e aperto la nuova “Libreria Cattolica La Casa di Miriam”, con sede in Piazza del Monastero, 3 a Torino. Ivi è operativa la vendita al dettaglio di Testi Cattolici, Bibbie, Vangeli, Testi di teologia, liturgia, ecclesiologia, patristica, vite dei santi, testi per la preghiera e oggettistica sacra (statue, quadri, rosari, oggettistica per la santa Messa, ecc.)
Il suo orientamento teologico assume una connotazione profondamente mariocentrica: la relazione materno-filiale come principio di intelligibilità della paternità divina.
TUTTI I TESTI SONO DISPONIBILI CONTATTANDO IL DISTRIBUTORE BYBLOS GROUP tel. 06 99330936
Novità – Disponibile da oggi 31-3-2025:
“Riempite d’acqua le giare (Gv 2,7) – Teologia dei segni alla luce degli scritti di Maria Valtorta” –
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«Il Pensiero che diventa Parola». Teologia trinitaria alla luce degli scritti di Maria Valtorta. Volume 1: Excursus storico-introduttivo sulla teologia trinitaria nei secoli
Corso di mariologia dell’intuizione. Dal dogma all’esistenza. Vol. 1: maternità intuibile
«Liberaci dal male». Preghiere di liberazione. Testi inediti. Vol. 2
«Liberaci dal male». Preghiere di liberazione. Vol. 3
«Liberaci dal male». Preghiere di liberazione. Vol. 1
Senza stancarvi mai. Preghiere semplici della devozione cattolica
Novena a San Francesco di Sales. Nuova ediz.
L’ essenza del cristianesimo in Romano Guardini. Nuova ediz.
Il santo rosario: contemplazione e mistero. Vol. 1: misteri della gloria, I.
Leone XIII. La teologia, il pensiero sociale e l’esorcismo
Novena alla Vergine della rivelazione
Locuzioni interiori notturne. Vol. 3
Novena a santa Maria Maddalena per la liberazione dalle ossessioni
Locuzioni interiori notturne. Vol. 2