“Mi ha detto tutto quello che ho fatto” (Gv 4,39) Εἶπέν μοι πάντα ἃ ἐποίησα

“Mi ha detto tutto quello che ho fatto” (Gv 4,39)

Εἶπέν μοι πάντα ἃ ἐποίησα

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Con queste parole, piuttosto enfatiche, la donna samaritana convoca i suoi compaesani al cospetto di Gesù, nel dubbio se egli possa essere davvero l’atteso Messia. A livello oggettivo – dice il testo di Giovanni – “molti samaritani credettero in lui per le parole della donna”, anche se “molti di più credettero a motivo della stessa parola di Gesù” (cioè, avendolo ascoltato direttamente). La samaritana si è trovata quindi, contro la sua volontà, a divenire una vera testimone di Gesù in terra non giudaica, tanto che gli stessi samaritani vollero poi che almeno due giorni Gesù stesse insieme a loro. Ma in che cosa consiste – stando al solo racconto evangelico – questa testimonianza data dalla samaritana alla sua gente? Giovanni, l’unico Evangelista che narra questo episodio (e che verosimilmente, a livello storico, assistette all’avvenimento), si limita a dire che, finito il dialogo con Gesù, la samaritana lasciò la brocca al pozzo e tornò di corsa nella sua città, appunto dicendo che un tale, che poteva essere il Messia, le aveva detto tutto ciò che ella aveva compiuto (cf. sia 4,29 che 4,39). Ma Gesù, in verità, non le ha detto tutto ciò. Il dialogo con la samaritana, infatti, nel fondamento della sua sostanza non verteva individualmente sulla donna e sul suo vissuto, ma sulla natura stessa di Gesù, sulla questione della divisione religiosa fra giudei e samaritani e, solo in minima parte, a livello soggettivo, sulla donna stessa e il suo vissuto.

L’esclamazione che Giovanni pone sulla bocca della donna è dunque enfatica, come se l’Evangelista sottintendesse qualcosa di più approfondito, nel dialogo di Gesù con quella donna, di quanto lo stesso Giovanni non registri nel suo Vangelo.

E tuttavia, nella coscienza della samaritana, la possibilità che Gesù sia il Messia (cosa che peraltro Gesù stesso le dice esplicitamente: si tratta solo di volergli credere), ebbene: questa possibilità scaturisce alla luce di ciò che di personale Gesù le dice (in modo intuitivo-profetico) del suo stesso vissuto. La donna, cioè, si sente “conosciuta” da uno “Sconosciuto”, che a motivo di ciò pensa possa essere il Messia.

Questa conoscenza di Gesù “di tutto ciò che uno fa”, è quello che anche a noi dovrebbe colpire in coscienza. La possibilità di essere non solo “noti” nel nostro agire e pensare, ma costantemente conosciuti nella nostra integrale economia esistenziale, ci deve elevare ad uno stato di coscienza distinto da quello mondano, che sino a un attimo prima della conoscenza di Gesù contraddistingueva anche la stessa donna di Samaria, nel suo vivere comune. Certo è che, dal modo in cui l’Evangelista Giovanni comunica l’evento, la figura di questa donna è sottintesa come conosciuta dai suoi concittadini. Qualcosa di significativo riguardava l’opinione pubblica sul suo conto. In tal senso, il fatto che Gesù, che non era di quel luogo, potesse conoscerne i dettagli, gettava uno sgomento di natura teologica su quella gente: egli davvero poteva essere il Messia a motivo di questo. E tuttavia non cambia, in noi, questa medesima legge di conoscenza di ogni cosa che Gesù ha sulla nostra esistenza. Anche se distinto è il nostro abito esistenziale, Gesù vi è presente in modo autentico e autoritativo, secondo una conoscenza che tutto integra e contempla di noi. Non siamo mai abbandonati alla vita che viviamo, né esenti dallo sguardo continuo di Gesù su di noi. Ciò va inteso secondo la grazia, come occasione dataci di restare costantemente alla presenza di Gesù, in tutto ciò che facciamo nella vita, istante per istante. E in tal senso, non vi è via di inganno possibile, sia rispetto a Gesù che a noi stessi, nel dover rispondere dell’agito oggettivo. Egli, infatti, è Sapienza eterna che tutto conosce di noi. Amen

 

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