La coscienza che Gesù aveva di sé e della sua missione Commissione Teologica Internazionale (1985) – dal sito www.vatican.va |
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La Commissione Teologica Internazionale si è già occupata due volte di cristologia [3]. Nella relazione pubblicata nel 1980, alcuni membri parlavano di una sintesi bisognosa di elaborazione da parte dei teologi, perché alla dottrina del Concilio di Calcedonia sulla persona e sulle due nature di Gesù Cristo si aggiungesse una prospettiva soteriologica. Nel medesimo contesto si accennò alla difficilissima questione della coscienza e della scienza di Cristo [4]. In seguito si trattò della preesistenza di Gesù Cristo e dell’aspetto trinitario della sua passione. Senza voler pregiudicare l’avvenire, la Commissione osservò che lo studio sulla coscienza e la scienza umana di Gesù rimane ancora da completare [5]. Come per il passato, la Commissione desidera ancora al presente ” mettere meglio in luce il posto che nella salvezza degli uomini hanno occupato l’umanità di Cristo e i diversi ” misteri ” della sua vita terrena, come il battesimo, le tentazioni, l’” agonia ” del Getsemani ” [6]. Di qui la decisione d’intraprendere una nuova ricerca sulla vita conoscitiva e affettiva di colui che conosce il Padre e ha voluto rivelarlo agli altri. La Commissione non intende trattare tutti gli aspetti relativi a tale tema, per quanto molto importanti; lo spirito del tempo, però, esige che si dia una risposta almeno ad alcune delle domande che, su Gesù Cristo, agitano oggi i pensieri e i cuori degli uomini. Quale persona sensata accetterebbe di riporre la propria speranza in un individuo che fosse privo di animo o d’intelligenza umana? Non si tratta di un problema da lasciare unicamente agli uomini del IV secolo [7], poiché esso conserva ancora tutta la sua attualità, benché in un contesto diverso. L’applicazione del metodo storico-critico ai Vangeli fa sorgere domande su Gesù Cristo, sulla coscienza che egli aveva della propria divinità, della propria vita e della propria morte salvifica, della propria missione, della propria dottrina e soprattutto del proprio progetto di fondare la Chiesa. Gli aspetti che applicano tale metodo hanno dato risposte diverse e talvolta tra loro contrapposte. E non è che col passare del tempo le controversie siano diminuite, se questi argomenti continuano a essere discussi non solo sulle riviste scientifiche, ma anche, almeno di tanto in tanto, sui quotidiani o sui settimanali, in tutta una letteratura popolare, nei moderni mezzi di comunicazione. Ciò è segno di quanto tali domande siano importanti non solo per pubblici molto vari, ma anche per i cristiani. A questi ultimi, quindi, riesce spesso difficile dare una risposta soddisfacente a chi chiede loro ragione della loro speranza (cf. 1 Pt 3, 15). Infatti, chi vorrebbe, o meglio chi potrebbe, avere fiducia in un Salvatore che avrebbe ignorato di essere tale o non avesse voluto esserlo? Si capisce allora come la Chiesa annetta un’estrema importanza al problema della coscienza e della scienza umane di Gesù, trattandosi, sia per la prima come la seconda, non di argomenti teologici puramente speculativi, bensì del fondamento stesso del messaggio e della missione propri della Chiesa. Essa, infatti, annunciando il regno di Dio, invita gli uomini alla penitenza; evangelizza; propone e fornisce i mezzi necessari alla liberazione, alla riconciliazione e alla salvezza; vuole comunicare a tutti gli uomini la rivelazione di Dio Padre, nel Figlio, mediante lo Spirito. Non teme di presentarsi al mondo intero come investita di questi compiti. Dichiara apertamente di aver ricevuto questa missione e questa dottrina dal suo Signore Gesù. E, a chi si domanda se le cose si presentano proprio così, si premura di rispondere esprimendo la propria fede e la propria certezza. Di qui l’importanza teologica e pastorale oggi delle domande sulla coscienza e sulla scienza umane di Gesù. Quando si affrontano queste domande teologiche e pastorali così importanti, dalle discussioni attuali emergono due gruppi di argomenti. Occorre innanzitutto accennare al rapporto tra l’esegesi ecclesiastico-dogmatica e l’esegesi storico-critica della Scrittura, perché queste difficili questioni di ermeneutica sono particolarmente acute nel campo della nostra ricerca. Secondo la dottrina del Vaticano II, l’esegesi della Sacra Scrittura ” deve ricercare che cosa gli agiografi in realtà hanno inteso significare “. Ora, nel ricercare le intenzioni prime delle affermazioni, bisogna tener conto anche ” del contenuto e dell’unità di tutta la Scrittura “, che dev’essere interpretata ” tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede ” [8]. Proprio in questo senso globale la Commissione, per trattare l’argomento, intende cominciare, seguendo l’indicazione del Concilio, dai temi biblici. Lo studio della Sacra Scrittura dev’essere, infatti, ” come l’anima di tutta la teologia ” [9]. Un altro problema non meno difficile si presenta allorché si studia la viva tradizione della Chiesa; vivendo infatti nella storia, la Chiesa e la sua teologia, per proporre una spiegazione della fede trasmessa una volta per tutte, devono servirsi necessariamente della lingua filosofica del proprio tempo, e in una maniera appropriata e critica. Le controversie sul problema che ci interessa provengono precisamente dalla diversità delle concezioni filosofiche. Nella sua esposizione, la Commissione non intende procedere a priori partendo da una determinata terminologia filosofica, ma da una comune precomprensione secondo la quale, in quanto uomini, noi siamo presenti a noi stessi nel nostro ” cuore “, in ogni nostro atto. Tuttavia, sappiamo che la coscienza di Gesù partecipa alla singolarità e al carattere misterioso della sua Persona e che, perciò, essa sfugge a una considerazione puramente razionale. Il problema che ci viene proposto, non possiamo trattarlo se non alla luce della fede, secondo la quale Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente (cf. Mt 16, 16). Il nostro studio si limiterà quindi ad alcune affermazioni su ciò di cui Gesù aveva coscienza relativamente alla propria persona e alla propria missione. Le quattro proposizioni che seguono si collocano sul piano di ciò che la fede ha sempre creduto riguardo a Cristo. Volutamente non entrano nelle elaborazioni teologiche che cercano di rendere conto di questo dato di fede. Non c’è nessuno accenno, quindi, ai tentativi di formulare teologicamente come tale coscienza abbia potuto articolarsi nell’umanità di Cristo. I commenti alle quattro proposizioni seguono, a grandi linee, un disegno in tre tappe: si esporrà innanzitutto ciò che la predicazione apostolica dice riguardo a Cristo; si cercherà d’indagare quindi su ciò che i Vangeli sinottici, mediante la convergenza delle diverse loro linee, ci consentono di dire sulla coscienza di Gesù; si esaminerà, infine, la testimonianza del Vangelo di San Giovanni, che dice spesso in una forma più esplicita ciò che i Vangeli sinottici contengono in una maniera più implicita, senza che vi sia tra di loro opposizione. La vita di Gesù testimonia la coscienza della propria relazione filiale al Padre. Il suo comportamento e le sue parole, che sono quelli del ” servo ” perfetto, implicano un’autorità che supera quella degli antichi profeti e che appartiene a Dio solo. Gesù attingeva tale incomparabile autorità dal suo singolare rapporto con Dio che egli chiama ” Padre mio “. Egli aveva coscienza di essere il Figlio unico di Dio e, in questo senso, di essere egli stesso Dio. 1.1. La predicazione apostolica postpasquale, che proclama Gesù come Figlio e come Figlio di Dio, non è il risultato di un tardivo sviluppo nella Chiesa primitiva; si trova già nel cuore delle più antiche formulazioni del kérigma, delle confessioni di fede o degli inni (cf. Rm 1, 3 s.; Fil 2, 6 ss.). San Paolo giunge sino a riassumere l’insieme della sua predicazione nell’espressione: ” II Vangelo di Dio circa suo Figlio ” (Rm 1, 1 .3; cf. Rm 1, 9; 2 Cor 1, 19; Gal 1, 16). Particolarmente significative al riguardo sono pure le ” formule della missione “: ” Dio ha inviato il proprio Figlio ” (Gal 4,4; Rm 8, 3). La filiazione divina di Gesù è quindi al centro della predicazione apostolica. Essa può essere compresa come una esplicitazione, alla luce della croce e della risurrezione, della relazione di Gesù col suo ” Abba “. 1.2. Infatti, la designazione di Dio come ” Padre “, divenuta puramente e semplicemente la maniera cristiana di designare Dio, risale a Gesù stesso: si tratta di uno dei dati più sicuri della ricerca storica su Gesù. Egli, però non ha solamente chiamato Dio ” Padre ” o ” Padre mio ” in genere; rivolgendosi a lui nella preghiera, lo invoca chiamandolo ” Abba ” (Mc 14, 36; cf. Rm 8, 15; Gal 4, 6), il che è indice di un qualcosa di nuovo. Infatti, la maniera di pregare di Gesù (cf. Mt 11, 25) e quella che egli insegna ai discepoli (cf. Lc 11, 2)suggeriscono la distinzione (che sarà esplicita dopo la Pasqua, cf. Gv 20, 17) tra ” Padre mio ” e ” Padre vostro “, e il carattere unico e intrasmissibile della relazione che unisce Gesù a Dio. Prima della manifestazione del suo mistero agli uomini, vi era nella percezione umana della coscienza di Gesù una singolare certezza profondissima, quella del suo rapporto al Padre. L’invocazione di Dio come ” Padre ” implica di conseguenza la coscienza che Gesù aveva della sua divina autorità e della sua missione. Non è senza ragione che ritroviamo in questo contesto il termine ” rivelare ” (Mt 11, 27 par.; cf. Mt 16, 17). Consapevole di essere colui che conosce perfettamente Dio, Gesù sa dunque di essere insieme il messaggero della rivelazione definitiva di Dio agli uomini. Egli sa e ha coscienza di essere ” il ” Figlio (cf. Mc 12, 6; 13, 32). In forza di tale coscienza, Gesù parla e agisce con un’autorità che appartiene propriamente solo a Dio. E l’atteggiamento degli uomini verso di lui, Gesù, decide della loro salvezza eterna (Lc 12, 8; cf. Mc 8, 38; Mt 10, 32). Sin d’ora, Gesù può chiamare alla sua sequela (Mc 1, 17); per seguirlo, bisogna amarlo più dei propri genitori (Mt 10, 37), anteporlo a qualsiasi bene terreno (Mc 10, 29), essere pronto a perdere la propria vita ” per causa mia ” (Mc 8, 35). Parla da legislatore sovrano (Mt 5, 22. 28) che si pone al di sopra dei profeti e dei re (Mt 12, 41 s.). Non esiste quindi altro maestro all’infuori di lui (Mt 23, 8); tutto passerà, tranne la sua parola (Mc 13, 31). 1.3. Il Vangelo di San Giovanni afferma in maniera più esplicita da dove Gesù riceva questa inaudita autorità: perché ” il Padre è in me e io nel Padre ” (10, 38); ” Io e il Padre siamo una cosa sola ” (10, 30). L’” Io ” che qui parla e legifera sovranamente ha la stessa dignità dell’” Io ” di Jahvè (cf. Es 3, 14). Anche da un punto di vista storico, possiamo con fondata ragione affermare che la primitiva proclamazione apostolica di Gesù come Figlio di Dio è basata sulla stessa coscienza che Gesù aveva di essere il Figlio e l’Inviato del Padre. Gesù conosceva lo scopo della sua missione: annunciare il Regno di Dio e renderlo presente nella sua persona, nei suoi atti e nelle sue parole, affinché il mondo sia riconciliato con Dio e rinnovato. Egli ha liberamente accettato la volontà del Padre: dare la propria vita per la salvezza di tutti gli uomini; si sapeva inviato dal Padre per servire e dare la propria vita ” per molti ” (Mc 14, 24). 2.1. La predicazione apostolica della filiazione divina di Cristo implica egualmente e inseparabilmente un significato soteriologico. Infatti, l’invio e la venuta di Gesù nella carne (Rm 8, 3), sotto la legge (Gal 4, 4), il suo abbassamento (Fil 2, 7), mirano al nostro innalzamento: renderci giusti (2 Cor 5, 21), ricchi (2 Cor 8, 9) e figli mediante lo Spirito (Rm 8, 15; Gal 4, 5 s.; Eb 2, 10). Una tale partecipazione alla filiazione divina di Gesù, la quale si realizza nella fede e si esprime in particolare nella preghiera dei cristiani al Padre suppone la coscienza che Gesù stesso ha di essere Figlio. Tutta la predicazione apostolica si basa sulla convinzione che Gesù sapeva di essere il Figlio, l’Inviato del Padre; e senza tale coscienza di Gesù, non solo la cristologia, ma anche tutta la soteriologia sarebbe priva di fondamento. 2.2. La coscienza che Gesù possiede della sua singolare relazione filiale col ” Padre suo ” è il fondamento e il presupposto della sua missione. All’opposto, dalla sua missione possiamo dedurre la sua coscienza. Secondo i Vangeli sinottici Gesù sa di essere inviato per annunciare la Buona Notizia del Regno di Dio (Lc 4, 43; cf. Mt 15, 24); a tale fine egli è ” uscito ” (Mc1, 38 greco) e venuto (cf. Mc 2, 17, ecc.). Attraverso la sua missione per gli uomini, possiamo nello stesso tempo scoprire Colui di cui è l’Inviato (cf. Lc 10, 16). Con gesti e con parole Gesù ha manifestato lo scopo della sua ” venuta “: chiamare i peccatori (Mc 2, 17), ” cercare e salvare ciò che era perduto ” (Lc 19, 10), non abolire ma dare compimento alla legge (Mt 5, 17), portare la spada della separazione (Mt 10, 34), portare il fuoco sulla terra (Le 12, 49). Gesù sa di essere ” venuto ” non per essere servito, ma per servire ” e dare la propria vita in riscatto per molti ” (Mc 10, 45) [10]. 2.3. Questa ” venuta ” non può avere altra origine se non in Dio. Il Vangelo di San Giovanni lo dice chiaramente rendendo esplicito, nella sua cristologia della missione (Sendungschristologie), le testimonianze più implicite dei Sinottici sulla coscienza che Gesù aveva della propria incomparabile missione: sa di essere ” venuto ” dal Padre (Gv 5, 43), ” uscito ” da lui (8, 42; 16, 26). La sua missione, ricevuta dal Padre, non gli è imposta dall’esterno; gli è propria al punto di coincidere con tutto il suo essere: essa è tutta la sua vita (6, 57), il suo cibo (4, 34), solo essa ricerca (5, 30), poiché la volontà di colui che lo ha inviato è tutta la sua volontà (6, 38), le sue parole sono le parole del Padre suo (3, 34; 12, 49), le sue opere, le opere del Padre (9, 4), in modo che egli può dire di se stesso: ” Chi ha visto me ha visto il Padre ” (14, 9). La coscienza che Gesù ha di se stesso coincide con la coscienza della sua missione. E ciò va molto al di là della coscienza di una missione profetica ricevuta in un momento determinato, fosse anche ” sin dal seno materno ” (come Geremia, cf. Ger 1, 5; il Battista, cf. Lc 1, 15; Paolo, cf. Gal 1, 15). Questa missione si radica molto più in una ” uscita ” originaria da Dio (” Perché da Dio io sono uscito “; 8, 42), il che presuppone, come condizione di possibilità che egli sia stato ” sin dall’origine ” con Dio (1, 1. 18). 2.4. La coscienza che Gesù ha della sua missione implica dunque la coscienza della sua ” preesistenza “. La missione (temporale), infatti, non è essenzialmente separabile dalla processione (eterna), ne è il ” prolungamento ” [11]. La coscienza umana della propria missione ” traduce ” per così dire, nel linguaggio di una vita umana, l’eterna relazione col Padre. Questa relazione del Figlio incarnato col Padre suppone in primo luogo la mediazione dello Spirito Santo, che quindi dev’essere sempre incluso nella coscienza di Gesù in quanto Figlio. Già la sua pura esistenza umana è il risultato di un’azione dello Spirito; a partire dal battesimo di Gesù, tutta la sua opera — si tratti di azione o di passione tra gli uomini, o di comunione di preghiera col Padre — non si realizza se non nello Spirito e mediante lo Spirito (Lc 4, 18; At 10, 38; cf. Mc 1, 12; Mt 12, 28). Il Figlio sa che nel compimento della volontà del Padre, lo Spirito lo guida e lo sorregge sino alla croce. Qui, conclusasi la sua missione terrena, egli ” affida ” (paredôken) ” il suo spirito ” (pneuma) (Gv 19, 30), nel quale alcuni scorgono un’introduzione del dono dello Spirito. Fin dalla sua resurrezione e ascensione, egli diventa come uomo glorificato ciò che egli è stato come Dio da tutta l’eternità: ” spirito datore di vita ” (1 Cor 15, 45; 2 Cor 3, 17), Signore capace di diffondere sovranamente lo Spirito Santo per innalzarci in lui alla dignità dei figli. Ma questa relazione del Figlio incarnato col Padre si esprime allo stesso tempo in maniera ” kenotica ” [12]. Per poter realizzare l’obbedienza perfetta, Gesù rinuncia liberamente (Fil 2, 6-9) a tutto ciò che potrebbe ostacolare tale atteggiamento. Così non vuole, ad esempio, ricorrere alle legioni angeliche che potrebbe ottenere (Mt 26, 53), vuole crescere come un uomo ” in sapienza, età e grazia ” (Lc 2, 52), imparare a obbedire (Eb 5,8), affrontare le tentazioni (Mt 4, 1-11 par.), soffrire. Tutto ciò non è incompatibile con le affermazioni che Gesù ” sa tutto ” (Gv 16, 30), che ” il Padre gli ha mostrato tutto ciò che fa ” (Gv 5, 20; cf. 13, 3; Mt 11, 27), se tali affermazioni si intendono nel senso che Gesù riceve dal Padre tutto ciò che gli permette di compiere la sua opera di rivelazione e di redenzione universale (cf. Gv 3, 11. 32; 8, 38. 40; 15, 15; 17,8). Per realizzare la sua missione salvifica, Gesù ha voluto riunire gli uomini in vista del Regno e convocarli a sé. A tale fine Gesù ha compiuto atti concreti la cui sola interpretazione possibile, se presi nel loro insieme, è la preparazione della Chiesa che verrà costituita definitivamente all’epoca degli avvenimenti della Pasqua e della Pentecoste. È dunque necessario affermare che Gesù ha voluto fondare la Chiesa. 3.1. In base alla testimonianza apostolica, la Chiesa è inseparabile da Cristo. Secondo una formula ricorrente in San Paolo, le Chiese sono ” in Cristo ” (1 Ts 1, 1; 2, 14; 2 Ts 1, 1; Gal 1, 22), sono le ” Chiese di Cristo ” (Rm 16, 16). Essere cristiano significa che ” Cristo è in voi ” (Rm 8, 10; 2 Cor 13, 5), è ” vivere in Cristo Gesù ” (Rm 8, 2): ” Tutti voi siete uno in Gesù Cristo ” (Gal 3, 28). Quest’unità si esprime soprattutto mediante l’analogia dell’unità del corpo umano. Lo Spirito Santo costituisce l’unità di questo corpo: corpo di Cristo (1 Cor 12, 27), o ” in Cristo ” (Rm 12, 5) e anche ” Cristo ” (1 Cor 12, 12). Il Cristo celeste è il principio di vita e di crescita della Chiesa (Col 2, 19; Ef 4, 11-16), egli è ” il capo del corpo ” (Col 1, 18; 3, 15, ecc.), la ” pienezza ” (Ef 1, 22 s.) della Chiesa. Ora quest’unità infrangibile di Cristo con la sua Chiesa si radica nell’atto supremo della sua vita terrena: il dono della sua vita sulla croce. Poiché l’ha amata, ” ha dato se stesso per lei ” (Ef 5, 25), poiché voleva ” farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa ” (Ef 5, 27; cf. Col 1, 22). La Chiesa, corpo di Cristo, trae la sua origine dal corpo consegnato sulla Croce, dal ” sangue prezioso ” (1 Pt 1, 19) di Cristo che è ” il prezzo del nostro riscatto ” (cf. 1 Cor 6, 20). Per la predicazione apostolica la Chiesa è proprio lo scopo dell’opera salvifica compiuta da Cristo nella sua vita terrena. 3.2. Quando predica il Regno di Dio, Gesù annuncia semplicemente l’imminente grande cambiamento escatologico, ma convoca innanzitutto gli uomini a entrare nel Regno. Il germe e l’inizio del Regno è ” il piccolo gregge ” (Lc 12, 32) di coloro che Gesù è venuto a convocare attorno a sé e di cui egli stesso è il pastore (Mt 14, 27 par.; Gv 10, 1-29; cf. Mt 10, 16 par.), egli, che è venuto a radunare e liberare le sue pecore (Mt 15, 24; Lc 15, 4-7). Gesù parla di tale convocazione sotto l’immagine degli invitati al banchetto di nozze (Mc 2, 19 par.), della semina di Dio (Mt 13, 24; 15, 13), della rete del pescatore (Mt 13, 47; Mc 1, 17). I discepoli di Gesù formano la città in cima al monte visibile da lontano (Mt 5, 14), costituiscono la nuova famiglia di cui Dio stesso è il Padre e nella quale tutti sono fratelli (Mt 23, 9); costituiscono la vera famiglia di Gesù (Mc 3, 34 par.). Le parabole di Gesù e le immagini di cui si serve per parlare di quelli che è venuto a convocare comportano una ” ecclesiologia implicita “. Non si tratta di affermare che quest’intenzione di Gesù implichi una volontà espressa di fondare e di stabilire tutti gli aspetti istituzionali della Chiesa, quali sono andati sviluppandosi nel corso dei secoli [13]. Invece è necessario affermare che Gesù ha voluto dotare la comunità, che egli è andato raccogliendo attorno a sé, di una struttura che rimarrà sino al pieno compimento del Regno. Occorre qui ricordare la scelta, in primo luogo, dei Dodici e di Pietro come loro capo (Mc 3, 14 ss.). Tale scelta, per di più intenzionale, mira alla definitiva fondazione escatologica del popolo di Dio che sarà aperto a tutti gli uomini (cf. Mt 8, 11 s.). I Dodici (Mc 6, 7) e gli altri discepoli (Lc 10, 1 ss.) partecipano alla missione di Cristo, alla sua potestà, ma anche alla sua sorte (Mt 10, 25; Gv 15, 20). In loro Gesù stesso viene e in Lui è presente Colui che lo ha inviato (Mc 10, 40). La Chiesa avrà anche la propria preghiera, quella che Gesù le ha dato (Lc 11, 2-4); essa riceve soprattutto il memoriale della Cena, centro della ” Nuova Alleanza ” (Lc 22, 20) e della nuova comunità riunita nella frazione del pane (Lc 22, 19). A coloro che ha convocato attorno a sé Gesù ha insegnato un ” modo di agire ” nuovo, diverso da quello degli antichi (cf. Mt 5, 21, ecc.), dei pagani (cf. Mt 5, 47), dei grandi di questo mondo (Lc 22, 25 s.). Gesù ha voluto fondare la Chiesa? Certo; ma questo Chiesa è il popolo di Dio che egli raduna innanzitutto a partire da Israele, attraverso il quale egli mira alla salvezza di tutti i popoli. Infatti, proprio ” verso le pecore perdute della casa di Israele ” (Mt 10, 6; 15, 24) Gesù sa di essere inviato innanzitutto e invia i suoi discepoli. Una dell’espressioni più commoventi della coscienza che Gesù aveva della propria dignità e della propria missione è questo lamento (il lamento del Dio d’Israele!): ” Gerusalemme, Gerusalemme, … quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali e voi non avete voluto! ” (Lc 13, 34; cf. 19, 41-44). Dio (Jahvè), infatti, nell’AT cerca senza tregua di riunire i figli d’Israele in un popolo, il suo popolo. Proprio quel ” Voi non avete voluto ” cambiò non già l’intenzione, ma il cammino che seguirà la convocazione di tutti gli uomini attorno a Gesù. Sarà d’ora in poi principalmente ” il tempo dei pagani ” (Lc 21, 24; cf. Rm 11, 1-6) a segnare l’ecclesia di Cristo. Cristo aveva coscienza della sua missione salvifica. Essa comportava la fondazione della sua ecclesia, vale a dire la convocazione di tutti gli uomini nella ” famiglia di Dio “. La storia del cristianesimo si fonda in ultima istanza sull’intenzione e sulla volontà di Gesù di fondare la sua Chiesa. 3.3. Alla luce dello Spirito, il Vangelo di San Giovanni vede tutta la vita di Cristo come illuminata dalla gloria del Risorto. Così la visione della cerchia dei discepoli di Gesù si apre già a tutti quelli che ” per la loro parola crederanno in me ” (Io 17, 20). Quelli che, durante la sua vita terrena, sono stati con lui, quelli che il Padre gli aveva dato (17, 6), che egli aveva custodito e per i quali ” aveva consacrato se stesso” (17, 19) dando la propria vita, costoro rappresentano già tutti i fedeli, tutti quelli che lo avranno amato (1, 12) e che avranno creduto in lui (3, 36). Mediante la fede sono uniti a lui come tralci alla vite senza la quale si seccano (15, 6). Quest’ultima unione tra Gesù e i credenti ” Voi in me e io in voi ” (14, 20) ha da un lato la propria origine nel disegno del Padre che ” da ” i discepoli a Gesù (6, 39. 44. 65), ma si realizza in definitiva mediante il libero dono della sua vita (10, 18) ” per i suoi amici ” (15, 13). Il mistero pasquale rimane la sorgente della Chiesa (cf. Io 19, 34): ” Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me ” 12, 32). La coscienza, che Cristo ha di essere inviato dal Padre per la salvezza del mondo e per la convocazione di tutti gli uomini nel popolo di Dio, implica, in modo misterioso, l’amore di tutti gli uomini, cosicché possiamo tutti quanti dire: ” II Figlio di Dio mi ha amato e ha dato se stesso per me ” (Gal 2, 20). 4.1. Sin dalle sue prime formulazioni, la predicazione apostolica implica la convinzione che ” Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture ” (1 Cor 15, 3), che ” ha dato se stesso per i nostri peccati ” (Gal 1, 4), e ciò secondo la volontà di Dio Padre che lo ha ” messo a morte per i nostri peccati ” (Rm 4, 25; cf. Is 53, 6), ” per noi tutti ” (Rm 8, 32), ” per riscattarci ” (Gal 4, 5). Dio, il quale ” vuole che tutti gli uomini siano salvati ” (1 Tm 2, 4) non esclude nessuno dal suo disegno di salvezza che Cristo abbraccia con tutto il suo essere. Tutta la vita di Cristo, dal suo ” ingresso nel mondo ” (Eb 10, 5) sino al dono della sua vita, è un solo e unico dono ” per noi “. Questo precisamente ha predicato la Chiesa sin dagli inizi (cf. Rm 5, 8; 1 Ts 5, 10; 2 Cor 5, 15; 1 Pt 2, 21; 3, 18, ecc.). È morto per noi, poiché ci ha amato: ” Cristo ci ha amato e ha dato se stesso offrendosi in sacrificio per noi ” (Ef 5, 2). Quel ” noi ” indica tutti gli uomini che egli vuole riunire nella sua Chiesa: ” Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei ” (Ef 5, 25). Ora, quest’amore, la Chiesa non lo ha inteso solo come un atteggiamento generale, ma come un amore talmente concreto che ognuno ne diventa oggetto di personale considerazione. Così la Chiesa vede le cose quando ascolta San Paolo ricordare il rispetto dei ” deboli “: ” Guardati dal rovinare con il tuo cibo uno per il quale Cristo è morto” (Rm 14, 15; cf. 1 Cor 8, 11; 2 Cor 5, 14 s.). Ai cristiani di Corinto lacerati dalle fazioni Paolo stesso pone la domanda: ” Cristo è stato forse diviso? Forse Paolo è stato crocifisso per voi? ” (1 Cor 1, 13). E proprio a questo proposito Paolo (che, d’altro canto, non ha conosciuto Gesù ” durante la sua vita terrena “: Eb 5, 7) potrà affermare: ” Io vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me ” (Gal 2, 20). 4.2. Le testimonianze apostoliche sopra ricordate in favore della morte subita per amore da Gesù in una maniera personalis-sima ” per noi “, ” per me ” e ” per i miei fratelli “, abbracciano in un unico sguardo l’amore senza limiti del ” Figlio di Dio ” (Gal 2, 20) preesistente, colui che viene riconosciuto nello stesso tempo come il ” Signore ” glorificato. Quel ” per noi ” pieno di amore di Gesù trova dunque il suo fondamento nella preesistenza e permane sin nell’amore del Glorificato che — dopo averci amato (cf. Rm 8, 37) nella sua incarnazione e nella sua morte — ora ” intercede per noi ” (Rm 8, 34). L’amore ” pro-esistente ” di Gesù costituisce l’elemento continuo che caratterizza il Figlio in tutte queste tre ” tappe ” (preesistenza, vita terrena, esistenza glorificata). Questa continuità del suo amore la troviamo espressa nelle parole di Gesù. Secondo Lc 22, 27, Gesù esprime l’insieme della sua vita terrena e del suo comportamento nell’immagine di ” colui che serve a mensa “. ” Essere il servo di tutti ” (Mc 9, 35 par.), questa è la regola fondamentale nella cerchia dei discepoli. L’amore di servizio tocca il suo culmine nella cena d’addio durante la quale Gesù sacrifica se stesso e si dona come colui che deve morire (Lc 22, 19 s. par.). Sulla croce, la sua vita di servizio si tramuta totalmente in una morte di servizio ” per molti ” (Mc 10, 45; cf. 14, 22-24). Il servizio di Gesù in vita e in morte era pure in fin dei conti un servizio del ” Regno di Dio ” in parole e in atti, al punto che egli può persino presentare la sua vita e la sua opera nella sua gloria futura come un ” servizio a mensa ” (Lc 12, 37) e come un’intercessione (Rm 8, 34). Il servizio era il servizio dell’amore, che associa l’amore radicale di Dio e l’amore pieno di abnegazione verso il prossimo (cf. Mc 12, 28-34). L’amore di cui tutta la vita di Gesù è una testimonianza si rivela innanzitutto come universale, nel senso che non esclude nessuno di coloro che vengono a lui. Quest’amore ricerca ” quello che era perduto ” (Lc 15, 3-10 e 11-32), i pubblicani e i peccatori (cf. Mc 2,15; Lc 7, 34. 36-50; Mt 9, 1-8; Lc 15, 1 s.), i ricchi (Lc 19, 1-10) e i poveri (Lc 16, 19-31), gli uomini e le donne (Lc 8, 2-3; 7, 11-17; 13, 10-17), i malati (Mc 1, 29-34, ecc.), gli indemoniati (Mc 1, 21-28, ecc.), gli afflitti (Lc 6, 21) e gli oppressi (Mt 11, 28). Quest’apertura del cuore di Gesù a tutti vuole intenzionalmente superare i confini della sua generazione, come risulta evidente nell’” universalizzazione ” della sua missione e delle sue promesse. Le beatitudini superano i confini dei suoi ascoltatori immediati, contemplano tutti i poveri, tutti gli affamati (cf. Lc 6, 20s.). Gesù si identifica con i piccoli e con i poveri (Mc 10, 13-16): colui che accoglie uno di questi piccoli accoglie Gesù stesso, e in lui accoglie Colui che lo ha inviato (Mc 9, 37). Solo nell’ultimo giudizio si vedrà apertamente fino a che punto quest’identificazione, per ora nascosta, si è potuta spingere (Mt 25, 31-46). 4.3. Questo mistero si trova nel cuore della nostra fede: l’inclusione di tutti gli uomini in quest’amore eterno con cui Dio ha amato il mondo, al punto da dare il proprio Figlio (Gv 3, 16). ” Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli [cioè Cristo] ha dato la sua vita per noi ” (1 Gv 3, 16). Infatti ” il buon pastore offre la vita per le pecore ” (Gv 10, 11); le conosce (Gv 10, 14) e le chiama ognuna con il proprio nome (Gv 10, 3). 4.4. Proprio per aver conosciuto quest’amore personale verso ciascuno [14], tanti cristiani si sono impegnati nell’amore verso i più poveri, senza discriminazione, e continuano a testimoniare quest’amore che sa di vedere Gesù in ognuno ” di questi miei fratelli più piccoli ” (Mt 25, 40). ” Si tratta di “ciascun” uomo, perché ognuno è stato incluso nel mistero della Redenzione e con ognuno Cristo si è unito, per sempre, attraverso questo mistero ” [15]. [1] La CTI vuole qui esprimere la propria gratitudine alla Pontificia Commissione Biblica per la collaborazione che i due organismi hanno potuto fraternamente realizzare. A tutti è nota la preziosa pubblicazione della Commission Biblique Pontificale, Bible et Christologie, Cerf, Paris 1984, pp. 294; traduzione italiana: Pontificia Commissione Biblica, Bibbia e Cristologia, Edizioni Paoline, 1987, pp. 298. [2] In questa nostra epoca di dubbio, non ci si spiega mai abbastanza. Per cui intendiamo precisare come il testo, che ora qui pubblichiamo, abbia subito tre redazioni e altrettante votazioni. La prima fu studiata e votata nella riunione plenaria dell’ottobre 1985; la seconda, emendata, fu preparata dalla sottocommissione e sottoposta a una seconda votazione scritta (novembre 1985). L’ultima, ritoccata in base ai modi e ai suggerimenti presentati venne subito dopo la conclusione del Sinodo (8 dicembre 1985), approvata con votazione scritta, quasi all’unanimità dei membri della Commissione Teologica Internazionale e ricevette il placet del Card. Ratzinger, presidente della Commissione Teologica Internazionale. [3] Commissione Teologica Internazionale, Alcune questioni riguardanti la cristologia(1979); Id., Teologia, cristologia, antropologia (1981). [4] Alcune questioni riguardanti la cristologia, cit., III, D. 6.1. [5] Teologia, cristologia, antropologia, cit., II, nota 1. [6] Alcune questioni riguardanti la cristologia, cit., II, C. 7. [7] In quell’epoca si affrontava la domanda sul sapere se Gesù Cristo avesse avuto un’umanità integrale. Una risposta valida la troviamo in San Gregorio Nazianzeno, secondo il quale era pura follia riporre la propria speranza in qualcuno che fosse privo d’intelligenza umana (cf. Ep. ad Cledonium, in PG 37, 181, C; SC 208, 51). [8] Dei Verbum, n. 12; cf. anche nn. 9 e 10. [9] Optatam Totius, n. 16; cf. Dei Verbum, n. 24. [10] Cf. Commissione Teologica Internazionale, Questioni scelte riguardanti la cristologia, cit., IV, B-C. [11] Cf. S. Tommaso, In sententias, I d. 15, q. 4, a. 1 sol. I; q. 43, a. 2, ad. 2. [12] Cf. Bible et Christologie, cit., 93-95 (n. 2.2.1.3.); cf. anche 45. [13] Cf. Commissione Teologica Internazionale, Temi scelti d’ecclesiologia, 1, 4. [14] Cf. Gaudium et Spes, n. 22, § 3. [15] Cf. Giovanni Paolo II, Enciclica Redemptor Hominis, n. 13 (in AAS 71 [1979] 283); cf. Gaudium et Spes, n. 22. |