Eugene Ruckstuhl

Resurrezione e Tradizione

Gesù

Dal libro di E. Ruckstuhl – J. Pfammatter,

La resurrezione di Gesù Cristo. Realtà storico-salvifica e centro della fede”,

titolo originale “Die Auferstehung Jesu Christi Heilsgeschichtliche Tatsache und Brennpunkt des Glaubens (1968), Ed. AVE, Roma 1971, pp. 85-89

“Parlare della Resurrezione del Cristo vuol dire parlare di un fatto storico-salvifico. É quindi un discorso che non si accontenta di comunicare delle cognizioni, ma che mira a destare la fede, quella fede biblica che non si esaurisce nel ritenere per vere cose che di per sé sono incredibili e inverosimili. L’aspetto intellettuale dell’atto di fede è, sì, una componente, ma solo una componente della fede completamente attuata, che (nella concezione biblica) abbraccia e qualifica in modo nuovo l’intera esistenza dell’uomo. Solo se viene colto per fede nella sua significatività, il messaggio pasquale è parola di salute, opera la nuova creazione, viene “accolto” dall’ascoltatore.

[…] Il Nuovo Testamento conosce tutta una serie di tronchi disparati di tradizione, tutti con rispettive sfumature, tendenze, formulazioni e locuzioni di carattere teologico. Per comprendere questo dato di fatto occorrono alcune osservazioni preliminari, e sono le seguenti.

1. Il formarsi della tradizione ai suoi esordi

Delle parole ed opere del Cristo, dell’evento “Cristo”, si parlò dapprima nel cosiddetto kerygma missionario, cioé nel primo annuncio dei primi missionari; ma ben presto anche nell’istruzione ecclesiale (didaché), vale a dire nella predicazione liturgica, nell’ammaestramento dei candidati al battesimo e dei neobattezzati. Oltre a questo, si ha fin dagli inizi il concreto annuncio dell’evento “Cristo” nella stessa liturgia. La “liturgia, con le sue istruzioni sulla Parola e le sue azioni cultuali, col battesimo (Rom 6) e con la celebrazione eucaristica (1Cor 11,17ss.), con l’ammaestramento apostolico e col discorso profetico (cfr. 1Cor 14) offrì copiose opportunità per creare e approfondire la fede nel Cristo e, da parte della comunità, di rafforzarla con atti di fede e canti, acclamazioni (Amen) e dossologie. Si comprende allora come mai la teologia che si sviluppa dal kerygma apostolico abbia un carattere di “anonimato”: i singoli annunciatori e maestri, i profeti ed innografi, gli autori delle prime confessioni di fede e delle prime formule liturgiche ci sono ignoti quanto al nome, si nascondono nel grembo della comunità, eppure stanno sul terreno della testimonianza apostolica e della fede dell’intera comunità ecclesiale”[1].

Dal punto di vista storico-tradizionale riveste una grande importanza l’uso che le più antiche comunità cristiane fanno dell’Antico Testamento. “Come lo stesso Gesù si servì nelle sue argomentazioni delle scritture veterotestamentarie, altrettanto fa la Chiesa primitiva, rintracciando ulteriori luoghi scritturistici, che potessero dimostrare voluti e promessi da Dio i fatti contenuti ed adempiuti nell’evento di salvezza che si attua in Gesù Cristo, soprattutto la Passione, la Morte e Resurrezione, l’Ascensione e il ritorno al cielo”[2].

Di qui si evolve una vera e propria teologia biblica, che pone una particolare e proporzionata attenzione ai luoghi, espliciti o allusivi, dell’Antico Testamento, che possano in qualche modo essere messi in connessione con i dati centrali dell’evento “Gesù”, o che sembrino addirittura contenere un nesso con quell’evento medesimo. In questa sede noi possiamo precisare quanto decisivo sia stato l’apporto che all’ulteriore sviluppo di tale teologia, accanto all’uso paleocristiano dell’Antico Testamento, diedero particolari rivelazioni dell’Asceso (cfr. Rm 11,25; 1Cor 15,51; 1Ts 4,15; 2Ts 2,3ss; 2Cor 12,1ss.) e l’attività svolta dai profeti del cristianesimo primitivo (cfr. 1Cor 14).

Inni liturgici

2. Varie unità di tradizione nelle epistole neotestamentarie

Con quanto si è detto si è già fatto allusione a quelle unità di tradizione, in cui si può cogliere il primitivo annuncio apostolico della salvezza, cioé quelle formule di fede, quegli inni liturgici e quegli asserti confessionali, che si trovano soprattutto nell’epistolario del Nuovo Testamento. Già nell’analisi di 1Cor 15,3-8 si è accennato che Paolo si serve di una formula di fede o di confessione, una formula che egli ha trovato già bella che redatta: un Credo paleocristiano, che abbraccia i vv. 3b-5 e 7. Analogamente vanno giudicate quelle formulazioni in cui viene impiegato lo schema “discesa-ascesa”, ovvero l’abbassamento di Gesù viene messo in contrasto con la sua esaltazione (cfr. Rm 1,4; 1Tm 3,16; 1Pt 3,18) e si canta in strofe inniche l’azione salvifica che Dio compie in Gesù Cristo (Fil 2,6-11; di certo anche la “preforma” di Col 1,15-20, oltre all’Inno del Logos, sul quale si costruì il prologo giovanneo di Gv 1,1-18 ecc.).

In molti passi delle lettere paoline non si può stabilire con certezza fino a che punto Paolo faccia suo (senza controllarlo) un certo patrimonio tradizionale, lo presupponga come noto o ne ricordi semplicemente il contenuto confessionale: così ad esempio Rm 3,24ss; 4,25; 10,9; 11,36; 1Cor 8,6; 1Ts 1,9s., ecc. Formule battesimali (come in Rm 10,9) e frammenti di canti battesimali (come in Ef 5,14), così come la catechesi battesimale (forse ad esempio in Eb 6,1s; 1Pt; 1Gv) sono un terreno non ancora sufficientemente esplorato, ma nel quale troviamo il più antico patrimonio tradizionale che, anche se non conservatoci nel suo tenore letterale, è la base da cui si evolve la teologia dell’evento salvifico.

Atti degli Apostoli Frammento

3. I discorsi degli Atti

Oggi si indaga meglio di un tempo l’indole letteraria di questi discorsi. Gli Atti degli Apostoli non ci danno il testo letterale delle prediche di Pietro o di Paolo (cfr. 2,14-39; 3,12-26; 4,9-12; 5,30-32; 10,39-43; 13,16-41; 17,22-31). Nella redazione di tali discorsi Luca si serve di un’antica tradizione kerygmatica e confessionale, la quale viene resa in una veste caratteristica che tradisce spirito e mano inconfondibilmente luchiani. In tutti i discorsi hanno una parte determinante la Morte e la Resurrezione di Gesù.

4. Gli eventi pasquali negli Evangeli

Alla presentazione che degli eventi pasquali fanno gli Evangeli abbiamo dedicato un apposito paragrafo di questo libro (V. n.3). Si è accertato al di fuori di ogni dubbio che tutti gli evangelisti hanno la basilare convinzione della realtà dell’evento pasquale. Naturalmente è loro buon diritto scegliere per il loro racconto una particolare forma letteraria, che nel contempo fa valere la sua peculiare portata teologica. L’importanza di questo tronco della tradizione traluce dal fatto che la passione di Gesù (anche se insieme ad un breve attestato conclusivo circa la Resurrezione) viene incorporata in un’ordinata narrazione come primo argomento dell’intera “tradizione di Gesù”. Gli Evangeli sono stati definiti “storie della passione con esaurienti introduzioni”: una definizione un po’ eccentrica, ma che mette in conveniente rilievo l’annuncio evangelico della passione e della Resurrezione […].


 

[1] Schnackenburg R., Neutestamentliche Theologie, Der Stand der Forshung, Mϋnchen 1963, pp. 49s.

[2] Ivi, pp. 50s.

 

 

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