Il desiderio come riduzione

Il desiderio come riduzione

(La Casa di Miriam riprende lo studio sulla Teologia del Corpo di Giovanni Paolo II, estratto dalla tesi di Laurea di Francesco Gastone Silletta, intitolata: “La differenziazione sessuata maschio-femmina nella Teologia del corpo di Giovanni Paolo II”)

Il desiderio come riduzione (Mt 5,27-28): il dono che diventa appropriazione

Prendendo spunto dalla lingua tedesca, risulta chiaro come nel contesto successivo al peccato originale il corpo assuma una significanza semantica unicamente secondo la forma di Korper, cioè soltanto un supporto biologico dell’esistenza, piuttosto che non come Leib, nel senso di espressione del valore del soggetto. Il suo significato sponsale è perciò trasmutato a strumento di sopravvivenza biologica e di godimento sessuale. In un certo senso si intende qui il corpo “infranto” dal peccato in una prospettiva aristotelica, secondo cui la fisicità e la sessualità sono realtà vergognose, o nella prospettiva di Maimonide, secondo il quale la corporeità non può far parte dell’immagine di Dio.

Sul piano più strettamente teologico è evidente come la condizione di comprensione del proprio corpo dopo la colpa originaria risulti nei progenitori fortemente antitetica alla loro aspirazione esistenziale più profonda, la quale è pervasa di quell’essere immagine che orienta alla felicità nella comunione interpersonale e nella relazione amorosa con Dio. La diversità maschile-femminile, invece, in questo contesto viene compresa come brusca contrapposizione e cede il posto soltanto alla sensazione di sensualità.

Il corpo non è più strumento di comunicazione della persona, ma arma di seduzione, nel senso letterale del termine. Esso è quasi materializzato, oggettificato in una prospettiva che ricorda il corpo-macchina di De La Mettrie e di Cartesio.

Il preludio biblico alla disfatta dell’uomo rispetto al proprio rapporto con il corpo tuona fortemente nell’espressione-profezia: “Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà” (Gen 3,16). L’accadimento della colpa originaria “sigilla” l’uomo maschile-femminile nella trappola della concupiscenza, la cui espressione massima è la falsificazione del rapporto di donazione interpersonale in favore di una spiccata tendenza al dominio sull’altro, in particolare, seguendo l’ordine biblico ma anche un fondamento psicologico, dell’uomo sulla donna.

Come l’immagine, anche l’ unità dei due risulta infranta: “All’essere un dono sincero e perciò al vivere per l’altro subentra il dominio: “Egli ti dominerà”.

Secondo Giovanni Paolo II, “questo dominio indica il turbamento e la perdita della stabilità di quella fondamentale uguaglianza, che nell’unità dei due possiedono l’uomo e la donna, e ciò soprattutto a sfavore della donna, mentre soltanto l’uguaglianza risultante da ambedue come persone può dare ai reciproci rapporti il carattere di una autentica communio personarum”[1].

Giovanni Paolo II, acuto interprete del suo tempo contemporaneo, nonché per certi versi profeta della donna e in genere forte sostenitore della condizione femminile, non ha esitato a diffondere attraverso il suo Magistero e le sue Catechesi del mercoledì una Teologia del corpo che prendesse in considerazione proprio la donna nel suo status naturae, in particolare riferendosi in più circostanze al passo biblico riportato in Gen 3,16, rispetto al quale si pone in una linea interpretativa attualizzante. Egli, infatti, porta l’attenzione ai tanti esempi di sfruttamento della donna lungo la storia, ai soprusi su di lei, alla subordinazione socio-antropologica con la quale è spesso stata considerata in ambienti culturali misogini e “machisti”.

Ancora, Giovanni Paolo II cita le culture poligamiche, l’uso del corpo femminile inteso oggettisticamente nelle pubblicità, sino alla vergogna fisica nel commercio del suo corpo[2]. A partire dal versetto di Gen 3,16, pertanto, egli elabora una personalistica Teologia del corpo, segnato dal peccato, soffermandosi particolarmente sull’aspetto del dominio sull’altro che rappresenta, più che un aspetto del castigo divino, il frutto stesso di quell’autonomia ricercata a tutti i costi dall’uomo a scapito della sua relazione teonomica con Dio.

Per dirla con Sartre, la nuova condizione dell’uomo maschio-femmina sintetizza un “passaggio dal solo uomo all’uomo solo”[3], anche se l’espressione sartriana si riferiva ad un contesto diverso, legato alla sua concezione della persona come presente alla coscienza solo in quanto oggetto degli altri.

Il punto di riferimento di Giovanni Paolo II, tuttavia, è ancora una volta una volta di matrice cristologica, nel senso che attinge la propria riflessione dall’ammonimento di Cristo: “Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chi guarda una donna con desiderio ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” (Mt 5,28).

Questo passo evangelico è inserito nell’ampio discorso della montagna di Gesù, il primo dei cinque grandi discorsi che caratterizzano il Vangelo di Matteo, e più in particolare si trova collocato nel contesto delle cosiddette “antitesi”, cioè il rapportarsi di Gesù all’antica Legge di Mosè alla luce del Regno dei Cieli. Al di là degli aspetti esegetico-biblici, dai quali emerge con chiarezza non tanto la volontà di Gesù di abrogare la Legge quanto piuttosto di orientarla verso il suo compimento con la novità che egli stesso nella sua Persona apporta per la storia della salvezza, interessa qui sottolineare proprio quell’espressione forte, dal suono apodittico, che Gesù pronuncia rispetto al “guardare una donna con desiderio”.

Giovanni Paolo II coglie proprio da questa espressione il riferimento più significativo a quell’uomo di desiderio, maschio-femmina, che risulta dall’esperienza del peccato originale. Mediante un procedimento analitico di collegamento, egli guarda sinotticamente questo testo (Mt 5,27-28) con un altro passo matteano (Mt 19,8), in cui si dice espressamente: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma in principio non fu così”. Inoltre, a questi due testi ve ne collega un altro, quello sopra già considerato della triplice concupiscenza giovannea (1Gv 2,16). In questo confronto scritturistico ad incrocio, Giovanni Paolo II vede un chiaro riferimento all’ethos del corpo, con chiaro riferimento alla condizione “preistorica” (il principio) dell’innocenza originaria ma anche alla condizione infranta del rapporto maschile-femminile.

Un primo elemento cui Gesù si appella nel suo “anatema” di Mt 5,27-28 è proprio il cuore, quel cuore che egli stesso definisce caratterizzato da una ostinata durezza (Mt 19,8). È lì che si esprime il fondamento non solo del peccato originale, bensì del sorgere di quella concupiscenza che falsifica in termini di dominazione l’uno sull’altro la reciprocità uomo-donna[4].

Il processo di revisione della legge dell’Antica Alleanza rispetto all’ethos del Regno che Cristo mette in atto mediante il Discorso della montagna (Mt 5-7) comincia proprio da una “revisione” del cuore, dalla necessità appunto di andare oltre la giustizia degli scribi e dei farisei (Mt 5,20), adeguandosi piuttosto alla giustizia divina che, per quanto interessa a questo contesto specifico, svela anche il significato del corpo e l’orientamento per una “antropologia adeguata” al volere divino.

Il senso dell’adulterio commesso dall’uomo che guarda con desiderio una donna che non è sua moglie, significa proprio questa appropriazione indebita dell’uomo stesso, che avviene interiormente nel suo cuore, per cui la donna è resa oggetto del proprio godimento “privato”, viene resa essa stessa in certo modo “adultera”. Quest’uomo a cui Cristo fa riferimento, è proprio quell’uomo storico che ha già sperimentato sia il “principio” dell’innocenza originaria, sia la frattura radicale con Dio e con se stesso nella colpa adamitica. Le parole di Cristo annientano quest’uomo storico per ricondurlo, dopo tale esperienza, alla sua propria immagine, prendendo coscienza della disconformità che il suo essere attuale maschio-femmina ha rispetto a quella che era la sua condizione di principio, così come era stata creata da Dio stesso. Soffermandosi in particolare sul tema dell’adulterio, Cristo lo svela quale infrazione esplicita dell’unità dei due espressa in Gen 2,24[5], un frutto evidente di quella concupiscenza che lo porta ad intendere la donna solo in termini utilitaristici di desiderio o finalistici di procreazione.

In questo senso l’unità somatico-spirituale tra uomo e donna è spaccata in senso pieno, poiché i due non si riconoscono più attraverso il loro essere maschio-femmina, ma piuttosto tale loro costituzione originaria diventa motivo di disunione e dominio. Si può perciò definirli non più come maschio e femmina, ma come “maschio o femmina”, sottolineando come, per quanto di fatto essi siano sempre la stessa “umanità” di Gen 2,24, la loro relazione reciproca si attua in tutt’altra direzione rispetto a quella dell’innocenza originaria.

Se prima erano chiamati all’unità, ora vengono minacciati dall’insaziabilità di questa unione[6]. Tale insaziabilità, che da un punto di vista etico conduce al dominio sull’altro, alla non curanza dell’altrui persona e dignità, nella prospettiva psicologica genera contemporaneamente un sentimento di vergogna (“Allora intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” – Gen 3,7), ma anche di paura legata a questa vergogna: “Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto” (Gen 3,10).

L’uomo maschio-femmina, infatti, perde la capacità di immedesimazione con il proprio corpo, comprendendolo come realtà estranea dal proprio sé. In questo senso l’uomo sperimenta una nuova solitudine, quella di un essere-gettato-là, senza appoggi e senza scuse”[7]. Nel vivere per l’altro che costituiva l’originaria esistenza umana, s’inserisce la realtà della dominazione, rispetto alla quale risulta danneggiata in particolar modo la donna, proprio perché la figura femminile risulta più legata alla dimensione affettivo-sentimentale e quindi meno orientata all’interpretazione “impulsiva” del corpo come oggetto di possibile godimento[8].

La sintonia psico-sessuale uomo-donna viene così delegittimata dall’irruenza degli impulsi non guidati dall’amore relazionale. Tuttavia anche la donna, come sottolinea Giovanni Paolo II, può trarre una sorta di giovamento egoistico dall’insaziabilità dell’uomo, utilizzando proprio una metodologia se-duttiva, secondo il significato sopra evidenziato, sfruttando a proprio esclusivo vantaggio proprio quella limitatezza psico-fisiologica dell’uomo che lo porta ad oggettificare il corpo di lei per fini goditivi.

La risultante è un reciproco tentativo di dominio uno sull’altra a scapito della vicendevole e personale donazione nell’amore reciproco: “Nel desiderio del bene infinito per un altro Io c’è il germe di tutto lo slancio creatore, del vero amore, slancio verso il dono del bene alle persone amate per renderle felici”[9].

Per quanto né il desiderio carnale in se stesso, né la sensualità intesa come facoltà reattiva ai valori sessuali siano in senso stretto il peccato originale, il loro abuso, cioè l’uso incontrollato è tuttavia prerogativa di un corpo bipolarmente differenziato maschio-femmina “macchiato” dalla colpa adamitica.

Si precisa inoltre che solo dopo il peccato originale compare il termine “marito”, in riferimento all’uomo, con un’accezione semantica che originariamente sta proprio per “maschio” nel senso più animale del termine, cioè come colui che opera un atto di dominio sull’altra. Persino il termine “matrimonio” linguisticamente proviene dalla stessa radice. In questo senso è naturale, data questa visione di dominio dell’uno sull’altra, che uno come Nietzche possa scrivere: “Un uomo deve concepire la donna come un possesso, come una proprietà che si può chiudere a chiave”[10].

 

L’orientamento di Giovanni Paolo II rispetto alla sessualità come istinto di dominazione è ancora una volta di matrice chiaramente personalistica. Egli proclama la possibilità di oltrepassare questa barriera interiore prodotta dalla concupiscenza mediante un oltrepassamento della concupiscenza stessa nell’amore, un amore che superi il legalismo esteriore di tipo farisaico ma che abbia dentro il cuore la propria sede di scaturigine. Ciò che si pensa, infatti, per la legge non è una colpa, mentre Cristo parla proprio di adulterio dentro il proprio cuore (Mt 5,27-28), proprio quello stesso cuore “da dove provengono pensieri malvagi, adulteri, omicidi, fornicazioni, furti, false testimonianze, bestemmie. Queste sono le cose che contaminano l’uomo” (Mt 15,19-20).

Il Nuovo Testamento è per tanto la fonte prima utilizzata da Giovanni Paolo II per la propria Teologia del corpo, dove egli trova la risposta più radicale all’esigenza umana di spiegazione del perché il corpo differenzialmente sessuato può essere inteso, e di fatto lo è, in una maniera così antitetica rispetto alla propria persona ed al valore della relazione amorosa interpersonale. Di fatto lo stesso S. Paolo ammetteva. “Nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente” (Rm 7,22-23). È la risultante di una condizione di abitudine-dominio della concupiscenza dentro l’uomo, proprio là dove la sua interiorità è più intima e vulnerabile. Ciò produce la logica del “non ciò che voglio io faccio”, nel senso che pur compiendo determinati atti in maniera consapevole, come ad esempio l’abuso del corpo di una donna, ciò produce vergogna, proprio perché si è coscienti del valore personale del proprio e altrui corpo, ci si rende conto di una infrazione della logica personale della differenza uomo-donna, rispetto alla quale, tuttavia, si sceglie liberamente di entrare in antitesi.

In realtà la persona esprime una relazione con la trascendenza a fondamento dell’essere, e questo proprio a motivo di quella relazione con l’altro “simmetrico a me”, per dirla con Mounier, rispetto al quale si instaura una dinamica di donazione e di comunione: “La relazione non è accidentale all’essere, ma costitutiva”[11]. L’espandersi del proprio sé in direzione dell’altro è il principio chiave della dinamica di relazione interpersonale.

Giovanni Paolo II aggiunge a questa logica l’amore cristiano, il quale è semplicemente il riflesso, l’immagine di quell’amore intradivino che origina l’uomo bipolarmente sessuato. Là dove viene meno questa dinamica di amore-dono, l’uomo stesso, nella sua bimorfologia sessuale, resterà inevitabilmente chiuso entro i binari del proprio sé, sminuendo di fatto se stesso e perdendo l’orientamento rispetto alla comprensione del proprio corpo.

Solo alla luce di una relazione con la trascendenza l’uomo può comprendere e difendere attraverso i propri atti quella soggettività che gli è propria e che caratterizza il suo essere persona. Il richiamo adamitico all’autonomia, pertanto, non può essere accettato nella misura in cui essa viene intesa come strumento di liberazione teonomica. L’uomo senza Dio, infatti, è un uomo senza sé e la sua relazione maschile-femminile non può che diventare, a queste condizioni, soltanto che una minaccia per l’unità dell’uomo stesso[12].

Fonte: Francesco Gastone Silletta – La Casa di Miriam – Torino

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[1] GIOVANNI PAOLO II, Lett. ap. Mulieris dignitatem, n. 10

[2] Cfr. il pensiero di Giovanni Paolo II su questo tema in SEMEN Y., op. cit., p. 120.

[3] SARTRE J.P., L’essere e il nulla, Milano 1965, p. 667.

[4] Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Uomo e donna lo creò, op. cit., p. 113.

[5] Cfr. Ivi, p. 118.

[6] Cfr. Ivi, p. 137.

[7] SARTRE J.P., L’essere e il nulla, op. cit., p. 667.

[8] Secondo Giovanni Paolo II la donna è per natura più casta dell’uomo, poiché più sensibile ai valori della persona. Si veda lo sviluppo di questo tema in GIOVANNI PAOLO II, Amore e responsabilità, op. cit., p. 129.

[9] Ivi, p. 99.

[10] NIETZCHE F., Al di là del bene e del male, Capitolo 7, aforisma 28, in SEMEN Y., La sessualità secondo Giovanni Paolo II, op. cit., p. 120.

[11] MOUNIER E., Il personalismo, Roma 1989, p. 73.

[12] Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Uomo e donna lo creò, op. cit., p. 129.

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